FOTOGRAFARE IL TANGO. NORA BRAMBILLA

image credit Nora Brambilla

Ogni anima danzante lo sa, l’immagine coglie l’attimo, definisce uno stato d’animo, esalta un’atmosfera, legge la vibrazione di luce e suoni. Il tanguero e il fotografo sono diventati un binomio imprescindibile della milonga e per questo ho scelto di chiedere ad alcuni amici fotografi, un loro punto di vista.

Inizio la carrellata con Nora Brambilla, milanese, tanguera e fotografa. Ho avuto il piacere di conoscerla qualche anno addietro, ho percepito immediatamente la sua verve, il candido fervore della sua danza, l’entusiasmo. Ho scoperto solo successivamente le sue foto e ne sono rimasta colpita, decidendo di iniziare da lei questo viaggio nelle immagini del tango carpite nella penombra di una sala, dentro l’intimità di un abbraccio.

  1. Fotografa e tanguera. Il tuo tango, il tuo personale modo di viverlo in pista influenza le foto che fai?

Certamente si! Oltre ad un occhio puramente tecnico, ovvero; così come non mi piacerebbe essere “colta in fallo” in una cattiva posizione evito a mia volta di pubblicare foto che non mi soddisfano dal punto di vista di postura, e piacevolezza dell’abbraccio. Per me, un ricordo di quel dato momento in pista deve sempre essere un complimento ai soggetti che ritraggo.  Poi più personale è quello che per me dovrebbe essere il tango, si capisce subito guardando le mie foto che cerco connessione, dialogo, gioia di condividere la musica, una delle mie citazioni preferite sul tango è: “Lui suona la nostra musica ed io ci canto sopra” non certo quella sul pensiero triste che si balla.

2. Cosa arriva nell’obbiettivo della tua macchina fotografica mentre scruti la pista durante la milonga? Quale scintilla ti spinge a fermare l’attimo?

Ciò che attrae come una calamita il mio obbiettivo è un bel sorriso spontaneo durante il ballo; poi i fattori sono gli stessi della vita di tutti i giorni; perché noti più una persona di un’altra? Cosa mi spinge ad inseguire più una coppia rispetto ad un’altra? Credo che la parte del leone la faccia sempre quell’aura di piacevolezza che da dietro il mio obbiettivo percepisco. Ho avuto più volte conferma di questo quando, soprattutto delle dame, mi hanno detto in privato, grazie per quello scatto, è stata la tanda più bella della serata. E a questo aggiungo quello che io chiamo il “guizzo” che sia un dettaglio nell’abito o un gesto nel ballo  un modo di interpretare l’abbraccio che devo assolutamente catturare.

3. Secondo te, il fatto che ci siano oramai molti fotografi intorno alla pista, influenzano i tangueros? Se sì in che modo?

In effetti sì, può succedere che delle coppie siano attratte o disturbate dalla presenza dei fotografi. Dal mio canto se vedo uno sguardo di disapprovazione, o per lo meno, che a me pare tale, distolgo l’obbiettivo; e qui ecco che la tanguera e la fotografa convergono. Nulla di diverso dal mio punto di vista dal concetto di mirada; se miro un cavaliere che  non gradisce le mie attenzioni distolgo lo sguardo e passo oltre, lo stesso se impugno una macchina fotografica; al contrario se c’è dell’interesse cerco nel limite del possibile di non disturbare il loro ballo e di coglierli in un momento di spontaneità.

4. Quanto influenza la riuscita di un evento, il suo buon nome, la presenza di un fotografo capace di cogliere le sfumature del tango?

Forse sono di parte, ma dal punto di vista della promozione dell’evento (per lo meno dell’edizione che seguirà) un buon fotografo può fare la differenza. Saper “raccontare” la storia di quell’evento credo possa essere importante per chi deciderà di parteciparvi.  Per la riuscita dell’evento in sé, non saprei, io personalmente se scelgo un evento rispetto ad un altro è per l’atmosfera che penso di trovare, per gli abbracci che avrò il piacere di vivere; abbracci però che se immortalati sarò felice di conservare. Quindi qual è la risposta? 🙂

5. Cosa ti piacerebbe fotografare che non hai ancora potuto fissare in un’immagine?

La foto perfetta non credo esista, sono una “neo” fotografa di tango e fotografa da che ho memoria ma la storia è sempre la stessa, la foto che vorrei aver scattato è sempre quella che non sono riuscita a scattare.  Nel tango ci sono artisti che ammiro particolarmente e che “da grande” mi piacerebbe ritrarre così come assoluti sconosciuti che ballando in pista mi hanno incantato al punto da non scattare alcuna foto, era troppo bello viverli.

6. Quale è la foto a cui sei più legata e perché.

Domanda difficilissima, se ci ragiono non trovo una risposta adeguata, ti faccio vedere la prima che mi è venuta in mente leggendo la tua domanda perchè forse ha segnato un cambio nel mio modo di voler fare foto in milonga, sono passata dal fare ritratti al cercare di raccontare una storia.

Ringrazio Nora Brambilla per aver partecipato alla Six.Q intervista con l’artista, spero di incrociarti prossimamente in milonga e – chissà- di ispirare uno dei tuoi bellissimi scatti.

Nora Brambilla self portrait

Per contattare Nora Brambilla

FB: Nora Brambilla

Instagram: lagattachescatta

IL POTERE DEI SOGNI

Qua bisogna capire bene se sono io che sto decisamente “fuori fase” o, se ciò che mi sta accadendo è naturale e quindi “cosa buona e giusta”.

Di norma sono un gioioso ghiro, mi addormento mirabilmente dinnanzi alla tv, complice l’affettuoso abbraccio dei miei tre gatti, dormo così tanto bene che trascorro sull’amato divanetto una buona parte della notte, poi, mi trasferisco a letto.

Consapevole che l’abitudine non sia delle migliori, non fosse altro per la postura assunta dal mio povero collo, ma tant’è, oramai è un’abitudine.

Ciò che mi ha spinto a scrivere questo post è un accadimento recente: sogno in modo pazzesco, e va bene, non fosse però che i sogni che faccio sono inquietanti, stanotte trasformatisi in incubi, così tanto reali – ad un certo momento della notte, ho nettamente percepito “qualcuno” camminarmi sulle lenzuola, nel dormi veglia, per tanquillizzarmi, ho pensato a uno dei gatti, poi sentendolo fermissimo tra le mie gambe, e continuando a percepire questo calpestio sul piumino, ho acceso la luce e, ovviamente, non c’era nulla, la gatta serena e tranquilla tra le mie gambe. Ho richiuso gli occhi, dandomi della scema e, allo stesso tempo, consolandomi pensando che i gatti proteggono dalle presenze che non si vedono e, insomma, ho cercato di riprendere sonno.

Non è che sono proprio diventata matta, tanti anni or sono ho avuto un contatto con una strana presenza, ma non a casa mia, ero in Toscana, mi ha spaventato a morte, perchè non sono affatto pronta a vivere simili esperienze.

Mia nonna, la precedente inquilina dell’appartamento in cui vivo, da ragazzina mi raccontava spesso di presenze invisibili che la venivano a trovare alla notte, ma nel suo racconto, non era mai spaventata, dava la cosa come “naturale nel soprannaturale”. Avendo a memoria le sue parole e il suo atteggiamento molto rilassato in materia, quando la cosa accade a me, e mi è accaduta più volte nel corso degli anni, prendo un sacrosanto spavento, mi agito perchè non comprendo e quindi invito “la presenza” ad andarsene. Percepisco molto distintamente se si tratta di incontri bonari, con energie quantomeno “neutre” , oppure se “la cosa” è arrabbiata, piuttosto che oggettivamente cattiva.

Ciò detto, stantotte che notte: sogno dapprima che, in vacanza al mare, vengo travolta dal crollo di un gigantesco ponte di sabbia, percependo ogni instante dei quintali di sabbia che mi stavano atterrando in testa. Riesco a scamparla perchè nel pericolo capisco che devo tuffarmi in mare ad un preciso istante, così faccio e resto viva. L’incidente non ha coinvolto nessuno, ero la sola sotto al ponte di sabbia.

Però non è finita, mentre cerco la persona con cui ero in vacanza senza trovarla, mentre rientro all’albergo, mi trovavo un un paese straniero dell’Africa nord sahariana, mi perdo nel paesino, chiedo informazioni a gente del posto, incappo in due figuri che mi si rivolgono in francese e che parlano italiano tra loro, non mi piacciono per niente, e faccio finta di essere francese. Ricevute le info, faccio il contrario di quanto suggerito, più o meno trovo la strada dell’albergo, ma scopro che mi stanno aspettando prima per farmi un agguato. Ed ecco che percepisco sul mio letto l’ospite invisibile.

Per farla breve, una notte di merda, come le ultime scorse.

In più, suggestionata da tutto quello che sento intorno a me da troppo tempo, nel dormiveglia ho pure pensato che questi sogni assurdi, queste percezioni, fossero l’attivazione delle nanotecnologie kattivissime che mi hanno iniettato con il vaccino.

E con questo concludo la mia notte da incubo.

Quando i rintocchi elettronici della sveglia hanno annunciato l’arrivo delle sei, ho benedetto il cielo di dovermi alzare.

La riflessione che mi resta tra le mani è un interrogativo: cosa sta cercando di dirmi il mio subconscio che non sono in grado di capire. Ma questa è un’altra storia…

Pimpra

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ELEGIA ADRIATICA

image credit Alessandra Cechet

Sono una sostenitrice accanita della “poetica delle piccole cose”, istanti di vita quotidiana che si palesano allo sguardo carichi di bellezza.

Vivo in una piccola città del lontano nord est adriatico, uno scrigno di tesori disseminati qua e là dalle raffiche di bora.

Dalle alture del carso, le generose fronde degli ippocastani centenari delle osmize offrono un approdo di gioiosa tranquillità, fino a scendere in riva al mare, dove il respiro dell’Adriatico infrange, sugli scogli di Barcola, la sua risacca.

Un piccolo mondo fatto di tante delicate perle, le passeggiate in Cittavecchia, arricchite dalla gaiezza di numerosi localini che offrono ai curiosi ogni tipo di scelta enogastronomica.

Ai triestini piace fare festa. Nella consuetudine burbera di alcune giornate in cui i volti che si incrociano per strada sono piuttosto tesi, manifestando un conclamato fastidio, specie il lunedì, arrivata l’estate, si rilassano in un giocondo sorriso.

La casa è rifugio obbligatorio solo in certe gelide giornate d’inverno, quando la bora nera si impossessa della città frustandola con le sue spire di ghiaccio. Solo allora, le pareti domestiche diventano ricovero necessario e quindi amato.

Ma d’estate…

L’invito dell’amica del cuore a fare il “TOCETO” del tardo pomeriggio, a Barcola. Ci andiamo in scooter, in doppia, approfittando del tragitto per scambiare una trama fittissima di parole. La costa è popolata come fosse giorno, non me lo aspettavo. Si direbbe che verso le 18.30 ci sia proprio un “cambio di turno” tra coloro che hanno trascorso l’intera giornata al mare e i nuovi arrivati.

Il sole è basso e poco prima dell’abbraccio al mare, colora l’orizzonte di un rosa intenso che sfuma in una calda nota arancione.

L’acqua è tiepida, offre un’immersione di liquido amniotico, il corpo si rilassa lasciandosi accarezzare dalle lievi increspature del mare.

Dalla bisaccia escono due calici, una piccola bottiglietta e del melone a tocchi, l’aperitivo perfetto, nel luogo perfetto, con la compagnia giusta.

Tutto vibra di gioia satura che mi viene voglia di fare il ponte, lì, sul mio asciugamano. La mia amica si vergogna un po’ ma mi lascia fare, è abituata oramai alle mie stranezze.

Il tempo ci scivola sulla pelle umida di salsedine, mentre ci godiamo questi attimi piccoli ed estremamente preziosi.

Tu chiamala estate.

Pimpra

ELEGIA ADRIATICA

image credit Alessandra Cechet

Sono una sostenitrice accanita della “poetica delle piccole cose”, istanti di vita quotidiana che si palesano allo sguardo carichi di bellezza.

Vivo in una piccola città del lontano nord est adriatico, uno scrigno di tesori disseminati qua e là dalle raffiche di bora.

Dalle alture del carso, le generose fronde degli ippocastani centenari delle osmize offrono un approdo di gioiosa tranquillità, fino a scendere in riva al mare, dove il respiro dell’Adriatico infrange, sugli scogli di Barcola, la sua risacca.

Un piccolo mondo fatto di tante delicate perle, le passeggiate in Cittavecchia, arricchite dalla gaiezza di numerosi locali che offrono ai curiosi ogni tipo di scelta enogastronomica.

Ai triestini piace fare festa. Nella consuetudine burbera di alcune giornate in cui i volti che si incrociano per strada sono piuttosto tesi, manifestando un conclamato fastidio, specie il lunedì, arrivata l’estate, si rilassano in un giocondo sorriso.

La casa è rifugio obbligatorio solo in certe gelide giornate d’inverno, quando la bora nera si impossessa della città frustandola con le sue spire di ghiaccio. Solo allora, le pareti domestiche diventano ricovero necessario e quindi amato.

Ma d’estate…

L’invito dell’amica del cuore a fare il “TOCETO” del tardo pomeriggio, a Barcola. Ci andiamo in scooter, in doppia, approfittando del tragitto per scambiare una trama fittissima di parole. La costa è popolata come fosse giorno, non me lo aspettavo. Si direbbe che verso le 18.30 ci sia proprio un “cambio di turno” tra coloro che hanno trascorso l’intera giornata al mare e i nuovi arrivati.

Il sole è basso e poco prima dell’abbraccio al mare, colora l’orizzonte di un rosa intenso che sfuma in una calda nota arancione.

L’acqua è tiepida, offre un’immersione di liquido amniotico, il corpo si rilassa lasciandosi accarezzare dalle lievi increspature del mare.

Dalla bisaccia escono due calici, una piccola bottiglietta e del melone a tocchi, l’aperitivo perfetto, nel luogo perfetto, con la compagnia giusta.

Tutto vibra di gioia satura che mi viene voglia di fare il ponte, lì, sul mio asciugamano. La mia amica si vergogna un po’ ma mi lascia fare, è abituata oramai alle mie stranezze.

Il tempo ci scivola sulla pelle umida di salsedine, mentre ci godiamo questi attimi piccoli ed estremamente preziosi.

Tu chiamala estate.

Pimpra

CAMPAGNA VACCINALE IN FVG. Dare a Cesare quello che è di Cesare.

Domenica è stato il V-Day per la mamma.

Vado a prenderla al mattino presto, era già pronta e piuttosto gasata. “Mamma sei particolarmente elettrizzata stamattina” e lei “Certo, non vedo l’ora di farmi il vaccino così potrò ripensare di organizzare i miei viaggetti con le amiche, non so fino a quando riuscirò ancora a muovermi!”

La giornata primaverile ci saluta mentre, con la macchina, percorriamo le strade di una città che si sta risvegliando.

Il Porto Vecchio, uno dei luoghi a me più cari di Trieste, ci accoglie nella gincana dei suoi magazzini rimessi a nuovo, dove, nelle strade che li scandiscono, trovano spazio gli sportivi della città che, di buon mattino, macinano chilometri a piedi e in bicicletta.

Un bel vedere, penso tra me e me, mentre parcheggio comodamente di fronte alla Centrale Idrodinamica. L’ultima volta che ci sono stata era per una meravigliosa maratona di tango argentino, oggi per vaccinare mia madre. Come è sorprendente la vita, penso.

Nello spazio adiacente l’ingresso, un gruppetto di vaccinandi tutti distanziati, mascherati, ligi alle regole. Dopo pochissimo all’ingresso si affaccia un addetto alla sicurezza che, megafono alla mano, chiama gli orari degli appuntamenti “Entrino le ore 9.30 – 9.35- 9.40” e, in religiosa fila, si presentano le persone e si incamminano nella grande struttura deputata al primo accoglimento. Controllo dei documenti da presentare, offerta di aiuto per compilarli e indirizzamento alle sedie predisposte per i gruppi in attesa.

Quando tocca a noi, vedendo il percorso che è stato organizzato mi scappa un’esclamazione di entusiastico stupore “questa sì che è organizzazione asburgica” e, ridendo con mamma, procediamo nelle tappe.

Pochi minuti di attesa, sedute e distanziate, poi annunciano nuovamente il gruppo della nostra ora e si entra nel complesso vaccinale. Anche nei padiglioni destinati all’inoculazione del vaccino, si respira efficienza. Va detto che i vecchini (la fascia 70-77 e categorie deboli) stranamente non sono esagitati, ma piuttosto tranquilli, aspettano il loro turno, senza infastidirsi. Bravi, penso.

Sono gli Scout adulti che si occupano di indirizzare le persone nelle postazioni: prima a farsi mettere sulle carte l’adesivo che stabilisce quale vaccino si riceverà, chi, prima di riceverlo deve passare dalla postazione medico (patologie particolari farmaci ecc.), oppure recarsi direttamente alla fila che precede la punturina.

Percepisco immediatamente una cosa: la stanchezza del personale, dagli amministrativi che controllano i documenti, agli scout che regolarizzano i flussi, agli infermieri, ai medici. Oggi (ieri ndr) è domenica e i turni che il personale fa vanno dalle 9 alle 12 ore di fila. E sono mesi che è così e la fine non si intravvede ancora.

Mi rendo conto che sto assistendo a un evento di portata storica, un intero paese che si vaccina, una situazione mai vissuta prima.

L’infermiera che riceve mia madre ha occhi verdi bellissimi che risaltano ancora di più con il colore del camice. Indossa scarpe da ginnastica perché un sacco di volte deve correre a fare una fotocopia per il vaccinando.

Le chiedo quante ore fa di turno, “dodici di fila” mi risponde. Sgrano gli occhi. Nel mentre ha già fatto la punturina a mia madre che nemmeno se ne è accorta.

Mamma la ringrazia tanto per la mano piumata e per il lavoro che fa, “Grazie” risponde con un sorriso l’infermiera “fa bene sentirselo dire, ci dà forza per non cedere alla pressione di queste giornate infinite”.

Passiamo alla sala del 15′ dove i vaccinati aspettano la remota possibile reazione anafilattica, infatti leggo un cartello che riporta “adrenalina”, poi, passata la manciata di minuti, ritiriamo il promemoria per il secondo appuntamento che è già fissato in agenda.

Lo consegna un team di infermiere che ho visto correre di qua e di là senza sosta per rispondere, risolvere, consolare a tutti coloro che ne avevano bisogno. Così stanche da faticare a leggere i nomi degli utenti sui fogli da consegnare per l’appuntamento.

Siamo uscite felici, mamma ed io, che il primo passo verso un futuro ritorno alla “normalità” era compiuto.

Guidando verso casa, ho attraversato una città bagnata dalla luce primaverile di una domenica di marzo, ma il mio pensiero riconoscente va a tutta l’umanità gentile di professionisti e volontari che ho incontrato nel comprensorio dedicato alla vaccinazione di massa.

Pimpra

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IL GIOCO DELLE FINESTRE

Quando ero una bimba innocente, gli anni meravigliosi dell’asilo e delle primissime classi delle elementari, come tutti i bambini della mia generazione, mi dilettavo a disegnare.

Le più belle sperimentazioni che io ricordi erano quelle con gli acquerelli, di cui amavo, più che la resa su carta, il gioco della loro preparazione con il bicchiere d’acqua e i pennelli che regolarmente facevo tracimare sul foglio, in uno tsunami colorato.

Amavo le onde che si creavano sulla superficie, mi piacevano così tanto che continuavo a inzuppare la carta fino a che non si bucava.

Gradivo meno le tempere perché l’odore della vernice non mi piaceva particolarmente, al contrario dei pastelli che una volta provai addirittura ad addentare, tanto ero golosamente attratta dal loro profumo di cera.

I soggetti dei miei disegni erano ricorrenti, se fossi stata mia madre qualche domanda me la sarei fatta, la mia invece si limitava a dire che erano orrendi, ma questa è un’altra storia. Disegnavo solo una casa con il giardino, il vialetto di ingresso, un albero o tre alberi, il sole e le nuvole. Oppure il mare. Animali e ogni altro soggetto non erano di mio interesse e neppure insiti nelle mie capacità espressive.

Torniamo alla casa, aveva sempre un dettaglio di finestre. Non le facevo mai uguali, le spostavo nella facciata, ne mettevo molte o poche, ci disegnavo le tende. Se a mio giudizio riuscivano bene le finestre, l’intera composizione guadagnava una dignità artistica che chiedeva solo il placet materno che puntualmente non arrivava, ma anche questa è un’altra storia.

Perché oggi sto surfando nell’onda di ricordi così tanto lontani? Perché nulla in me è cambiato, nel senso che, anche nella mia piccola passeggiata dell’ora di pranzo, cammino a naso all’aria e … osservo le finestre sulle facciate dei palazzi. Ovviamente non disegno più da allora.

Oggi capisco bene perché la mia produzione d’infanzia ne fosse così ricca: oggi apprezzo il neoclassico del salotto buono del centro cittadino.

Le giornate di sole di questo giovane autunno, aiutano a scandire il racconto delle linee verticali e orizzontali quando non curve delle finestre che si susseguono come note appoggiate in una partitura musicale.

Un piacere per me godere del gioioso trillo architettonico di uno stile apparentemente così severo.

Il neoclassico cittadino è solo il mantello sobrio che nasconde l’animo sbarazzino e monello della città. Per goderselo bisogna tornare bambini e camminare con il naso all’aria.

Pimpra

DOLCE SETTEMBRE

E’ un mese particolare, un po’ come gennaio, settembre segna la ripresa.

Riaprono scuole, l’Università, corsi di ogni genere, la vita riprende a fluire ritmata dagli impegni che ne scandiscono i giorni.

Anche i corsi di tango ripartono in presenza con tutte le dovute cautele del caso. Tutti noi cerchiamo la normalità per riacciuffare il nostro equilibrio.

Settembre sono fiammate di gialli, di rossi e arancio. Non immagino più l’autunno come la stagione che mette fine all’estate, è molto di più: è inizio.

Ci trasformiamo cambiando sembianze interiori e questa mutazione, prima di compiersi, attraversa più fasi. L’autunno è una di queste, forse quella più interessante poiché dallo splendore estivo urlato dalla natura, si volge a un canto roco e profondo, carico di promesse, fatto di luci ed ombre.

Mi accingo a trasformarmi insieme alle foglie, pronta per lasciare andare ciò che sono stata e iniziare la creazione di quella che verrà.

Ascoltando il canto melanconico di giornate sempre più brevi accolgo la dolce luce della sera.

Vi auguro una buona rinascita.

Pimpra

MALINCONIA TANGUERA

Questa è solo la minima parte del mio personale parco scarpette da tango. Queste sono le bimbe che, attualmente, mi seguono nelle peregrinazioni sulle piste.

Ho sbagliato tempo dei verbi: devo usare il passato remoto.

Ci passo davanti ogni giorno, le accarezzo con lo sguardo, ogni paio mi ricorda momenti fenomenali della mia vita, ore di piacere, di gioia, a volte anche di cocenti delusioni, di dispiacere.

Le mie scarpette da tango raccontano la mia vita, quella degli ultimi 15 anni.

Ogni giorno mi osservo i piedi, li vedo senza lividi, senza calli, senza unghie rotte, dovrei essere contenta, invece ci leggo il segno della pausa, della sosta obbligata a cui siamo stati costretti.

Ammiro molto gli amici e i maestri che, determinati, hanno continuato a ballare, ad allenarsi a distanza, a perfezionare la tenica.

Io faccio fatica, perché mi prende come un dolore dentro, vivo una sorta di lutto, perché mancano gli abbracci, come non mai.

Ho letto che in alcune regioni d’Italia, con prudenza, stanno riaprendo le scuole di ballo, ed è una cosa meravigliosa. Da me, nel lontano nord est ancora vige il divieto, ma sono e voglio restare ottimista.

Ho una grande paura: riuscirò a ballare ancora? Sarò in grado? Il corpo non allenato, rimasto per mesi in quasi totale inattività fisica, recupererà?

Sono sopraffatta dal desiderio e dal timore, dal bisogno di riprendere e dalla paura di non farcela.

Le mie scarpette sono lì, mi guardano e continuano a ricordarmi come ero e come era bello ballare.

Non metto più i tacchi da tantissimo tempo, perché se non posso ballare, è come se la mia “donna” portasse l’abito del lutto.

Ma il tango tornerà ed è bene farsi trovare pronti.

Oggi indosserò il paio da studio e muoverò i primi passi, in fondo la vita è questo: RICOMINCIARE.

Pimpra

CURA A 7. NOTE

Siamo in clausura forzata ed è molto difficile. La libertà, oggi più che mai, ha un valore primario percepito nella vita di ognuno.

Uscire, muoversi, semplicemente, respirare.

Dobbiamo, credo per la prima volta nella nostra storia moderna, diventare una cosa sola pure rimanendo fedeli ai propri singoli confini individuali.

Confini che oggi sono più stringenti che mai, giorno dopo giorno, le pareti di casa ci stringono sempre più. Abbiamo bisogno d’aria, di cielo, di montagne, di mare e di foreste.

La sola via di fuga praticabile è quella di un viaggio ad occhi chiusi, un volo dell’immaginazione nei luoghi a noi più cari, con le persone più care.

Sono abituata da sempre a viaggiare così, da sempre. Crescendo però ho dovuto – erroneamente – abbandonare il mio mondo onirico perché, colà originavano fantasie e aspettative, sempre positive, luminose, eteree che, al mio risveglio, mi facevano precipitare a faccia in giù nella polverosa e dura realtà. Così ho cercato il più possibile di non viaggiare con la mente, riuscendoci, indurendomi, perdendo la patina di rosa che colorava il paesaggio.

Poi arriva quest’anno così strano, pauroso, inquietante, drammatico. La mente razionale, a questo punto, mi aiuta solo a sopravvivere nella realtà della giornata, evitandomi comportamenti sconsiderati, per la salute mia e della mia comunità. E poi? Cosa resta?

Nulla ci accade per caso, nemmeno quando Sky arte (ottimo nutrimento emotivo in questi giorni bui) propone uno speciale su due giovanissimi violoncellisti che, oltre alla musica seria, utilizzano i loro archi suonando le canzonette della massa.

Ecco che le loro note sono entrate dalla porta principale lambendo tutta me, risvegliando quel motto dell’animo che mi portava lontano, sciogliendo la crosta dura della “resistenza alla realtà” che è utile, certo, ma come una corazza, va tolta quando si è al sicuro.

Il carburante del viaggio di questi tempi di spazi ristretti, di solitudini, di vuoto e di troppo pieno, di incertezza e disagio, per me è la musica.

Se avete voglia di contribuire alle mie partenze nel mondo bello dei sogni – da sveglia – proponete la vostra musica, aggiungendola nei commenti a questo post.

Grazie.

Pimpra

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LA POETICA DELLA PANDEMIA

E’ una cosa che ho dentro, un senso di malinconia che mi riempie, una magica connessione con tutta me stessa.

Sto vivendo la prima pandemia della mia esistenza e sono un’adulta consenziente. Guai se tutto questo mi fosse accaduto anche solo 10 anni fa, non avrei retto alle emozioni, ne sono sicura, facendomi prendere da un panico irrazionale.

Oggi non è così, sono connessa, in tutti i sensi e con tutti i sensi, a quanto accade eppure, salvo piccoli momenti di scivolata, resto glaciale e fredda. Il mio modo di affrontare le prove più difficili. Mi congelo, da sempre.

La malinconia che mi parte dal ventre e sale fino alla testa, uscendo dagli occhi, nello sguardo che poso sul mondo. Il mio piccolo mondo, la città in cui vivo, resa deserta dall’ordinanza di contenimento, si mostra, in realtà, in tutta la sua bellezza che, oggi, ha una sfumatura quasi decadente.

Vibro forte e mi emoziono ad incrociare le persone con la mascherina, molto spesso indossata in modo inesperto. Inutile dire che questi strumenti di precauzione sono esauriti, presi d’assalto da tutte quelle e quei piccoli me di 10 anni addietro. Tutti coloro che fanno le scorte per se stessi, dimenticando che pandemia “pan- tutto; demos- popolo, in greco antico” non è cosa che li riguardi in esclusiva.

Non siamo fratelli e sorelle sotto lo stesso cielo e si evince dalla corsa al saccheggio dei beni primari che spariscono dai supermercati come fossimo in guerra.

Siamo in guerra, con il nemico invisibile ma, soprattutto, in guerra con l’irrazionale di noi stessi, con i mostri mai vinti che si sono rialzati più forti che mai.

Rientro in ufficio con due buste della spesa, così da non dovermi recare tra i pazzi che fanno le scorte contro la carestia. Ho già imparato che ci sono ore più propizie, dove le persone non si vedono, e le ore di punta. Ho già imparato, si chiama resilienza e adattamento.

La malinconia mi tiene compagnia anche adesso, mentre scrivo queste parole, nel mio ufficio semi deserto, accarezzata dalla luce primaverile che filtra dalle persiane già abbassate.

Una malinconia tiepida, come l’aria che si respira fuori e che sarebbe bene filtrare, ma io no, non sono tra coloro che ci hanno pensato da tempo, non ho fatto la corsa per proteggere me, non ci ho pensato, immaginando che, comunque, la priorità l’avessero i più deboli…

Quanta malinconia in questa solitudine, ma quanto calore sgorga. Sento nascere, anzi, risvegliarsi il mio guerriero, nomen omen, che mi dice “Sei nata per combattere, è questo quanto ti sei data per questa vita”. La battaglia più difficile, per me che sono una donna, è vincere le paure.

La malinconia riscalda anche quelle e me le serve come una tisana tiepida da sorseggiare prima di dormire.

La poetica della pandemia è anche questa.

Pimpra

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