800 TANGO PARTY. 12 ORE DI SORPRESE. #ditantointango

Per chi, come me, fa parte della generazione precedente ai millenials, Facebook resta ancora una pietra miliare per essere a conoscenza di interessanti eventi tangueri.

Grazie alle foto viste sul social e alla sensazione piacevole che ne ho ricavato oltre ai commenti assolutamente entusuasti che ho letto, mi sono organizzata e, con un amico, mi sono iscritta all’800 tango party di domenica scorsa.

La curiosità che avevo di verificare di persona questa milonga di 12 ore di cui in tantissimi mi avevano parlato con grandi elogi, è stata appagata nel migliore dei modi possibili.

Innanzitutto ho vissuto l’esperienza con due gruppetti di amici che rendono la trasferta tanguera già piacevole di suo, il resto lo ha fatto il party.

Location poco fuori Ferrara molto facilmente raggiungibile in macchina, ampio parcheggio super organizzato (presente anche il parcheggiatore). Una struttura grande, interamente dedicata alla ristorazione: una gioiosa casa dell’accoglienza culinaria nel cuore pulsante dell’Emilia. Una famiglia intera al servizio dei piaceri della tavola e non solo.

Eravamo davvero in molti, a occhio e croce sulle 200 persone, organizzazione impeccabile dall’accoglienza e check in dei partecipanti, pagamento, braccialetto identificativo e via, al secondo piano interamente dedicato alla festa.

Uno spumeggiante tj set che ha visto alternarsi Max Romano a Flavio Zizzu che hanno saputo mantenerci in pista durante le lunghe ore che dalla tarda mattinata ci hanno portato alla fine del giorno.

“Dove c’è casa” ci sono tangueros. E’ stato bellissimo incontrare nuovamente persone che non vedevo da moltissimo tempo, ballerini di tutte le età e provenienze geografiche della penisola con alcuni ospiti anche stranieri.

Non ho mai visto un buffet tanto incredibilmente ricco come quello trovato all’800 tango party! Dalle leccornie in stile brunch, ai primi piatti ai contorni ai dolci offerti, riassortiti in continuazione per tutta la durata dell’evento! Non ho memoria di aver mai mangiato così tanto e ininterrottamente durante un’intera giornata, impossibile resistere alla tentazione.

Il deus ex machina di questa festa, Alessandro Parise e la sua famiglia di ristoratori coadiuvati dallo staff che ci hanno coccolati in un modo unico.

Tra un assaggio e l’altro di ghiotte pietanze ho anche ballato e mi sono divertita un sacco. I piedi dopo le prime 5 ore hanno urlato vendetta: ho tolto i tacchi e chi se ne frega.

Stamattina, salita sulla bilancia, temevo il peggio, invece nessun danno collaterale – evviva! – perchè se stai bene, balli bene, mangi ancora meglio è come assumere la pillolina della felicità!

Pimpra

Ps: se volete partecipare al prossimo party, info qui. Se volete semplicemente mangiare al ristorante, qui, ma prenotate prima è sempre pieno.

GOOD VIBES ONLY

La giornata grigia e piovigginosa di dicembre, un lunedì per giunta, non aiuta a tenere gli occhi aperti sul mondo. Sono davanti al pc dell’ufficio con il corpo, solo con quello.

Sto inseguendo pensieri colorati, girandole di emozioni vibranti, spicchi di allegria scanzonata che mi hanno accompagnato durante il weekend bolognese.

L’Emilia Romagna è sempre un bel stare. Quale che sia l’ingrediente segreto non so di preciso, ma azzardo nel dire che sta custodito negli abitanti. A Bologna c’è casa, quella che sa di tortelli, di quintalate di carboidrati che ti mettono allegria per forza, di popolosa gioventù che i miei occhi non sono abituati a trovare.

I colori stessi della città, o quantomeno del suo centro, sono caldi e terrosi, a differenza dei toni ghiacciati del neoclassico di casa mia, all’estrema periferia “dell’impero”.

A Bologna si è, in totale pienezza.

Ho rimesso piede su un parquet dopo molto tempo, con l’anima in subbuglio, in un misto di adrenalinica emozione e un pizzico di ansia. Ho legato alle caviglie i laccetti delle scarpe preferite, ritrovando, nell’affacciarsi mogano dello smalto passato sulle dita, un punto di vista familiare.

Ero pronta e tremante, vibrante di una vita rimasta troppo a lungo come sospesa.

Le prime note sono entrate potenti e, senza pensarci, una mano amica mi ha condotto nei solchi di quella musica grassa di argilla e di stelle, e il mio corpo, come se nulla fosse, si è connesso.

Noi che abbiamo questo potente alleato nella nostra vita, dovremmo sempre ricordarci di onorarlo. Noi balliamo il tango, siamo dentro il flusso della sua vita che scorre, sempre, anche se a volte non la vediamo, come un fiume carsico.

Si è mostrato davanti a me, tremate e sudata, mi ha rincorso, abbiamo giocato insieme, a prenderci a nasconderci, insieme abbiamo suonato una nuova musica, la nostra, accompagnata dai diversi abbracci e dalle orchestre che creavano un prisma colorato di gioia.

Questi i doni che mi porto a casa, ebbra di me e di lui, di questo assurdo e fenomenale tango meraviglioso che mi ha sua. Per sempre.

La mia magia assoluta si chiama Amarcord. Perchè solo chi ama veramente, sa come si crea amore.

Grazie Antonella Fabio e crew per questo nuovo dono.

Pimpra

Un martedì senza empatia, non è mai una buona giornata.

Nella società moderna, così fluida, veloce ed effimera, sono sempre più carenti alcuni tratti fondamentali del vivere collettivo, tra questi cito l’empatia.

EMPATIA= dal greco En, dentro; PATHOS, sentimento.

Stamattina ho accompagnato l’anziana madre a un controllo medico per validare la terapia che sta seguendo da un mese e che le procura qualche fastidio.

Si trattava di una visita “al buio”, nel senso che il medico non sapevamo chi fosse, solo la specialità: neurologo.

La madre, come moltissimi altri pazienti triestini e non, ha perso quel faro di umanità, competenza, disponibilità che era la compianta prof.ssa Rita Moretti e, come molti altri, stiamo cercando di capire come proseguire l’opera iniziata dalla dott.ssa tristemente e improvvisamente deceduta.

Mia madre,

Mia madre, ça va sans dire, non si è occupata del “post Moretti”, non essendo capace di farlo, non fosse per l’età avanzata, sicchè sono stata io a mettermi al telefono per trovare il filo iniziale dell’intricata matassa.

Le telefonate si sono susseguite in una serie di scivolamenti verso il non detto, alla mia domanda “Ma la dott.ssa aveva dei collaborator* fidati?” , nessuno che si fosse sbottonato, la mia non era una richiesta perentoria, solo la ricerca di un suggerimento, un consiglio: “Mettetevi nei miei panni, a chi chiedereste per vostra madre?”. Niente, tutti, dagli infermieri di reparto ai segretari del primario della clinica ospedaliera, abbotonatissimi. Mi suggeriscono di chiedere una visita, cosa che faccio ed eccoci.

Ci accoglie un medico donna, dall’aspetto gentile, il seno florido che rimanda immediatamente alla “madre” archetipale, mi sembra bene. Parte la domanda a bruciapelo a mia madre “Lei perchè è qui?” e lei, ansiosa di prima generazione, perde l’uso della parola e diventa tutta rossa, fin sotto alla mascherina. Faccio per rispondere io, per aiutarla, e perchè la visita di controllo e verifica terapia era un’idea mia ma il medico mi blocca con fare severo.

La madre, sempre più rossa, comincia a biascicare qualcosa, facendo vieppiù innervosire il medico. Al che mi intrometto e spiego la ratio della visita.

Rimprovero n. 2: non dovevamo andare lì, che il farmaco da controllare lo dispensano solo centri specializzati particolari che hanno un registo e che lei non poteva fare nulla.

Mia mamma tramortita. Io, piuttosto imbizzarrita, avrei voluto rispondere per le rime, assecondando il movimento delle mie emozioni, ma sono stata saggia e, invece di inveire contro un simile trattamento, mi sono scusata dicendo che, per chi sta – come noi – dall’altra parte della scrivania, non è affatto scontato trovare i percorsi scorretti perchè non è il nostro mestiere.

La dott.ssa dalle grandissime tette, evidentemente mossa a compassione, depone un poco le armi e afferma che la visita l’avrebbe fatta comunque. Ed è stato così, e pure senza fretta.

I test verbali somministrati a mia madre dalla dottoressa dal corpo accogliente ma dalla parola tagliente, hanno vieppiù accresciuto lo stato di stress, specie alla domanda “Quanto fa 100-7?”: panico, mia mamma paonazza, in difficoltà come un uccellino caduto dal nido, alza la voce e quasi urla “Non lo so!”.

Ero a disagio per lei, perchè i numeri ci sono sempre stati osptili, ma un conto è cercare di gestirli in stato di tranquillità, altro è con lo stress da interrogazione.

Concluso il test verbale e fisico, la neurologa ha stilato un’approfondita anamnesi e ci ha indirizzato nel posto giusto. Amen.

Però così non si fa.

All’uscita la madre era ancora stremata dalla prova, in imbarazzo per la brutta figura (soffre di un serio disturbo della memoria), incavolata per essere stata trattata con “severità”.

Capite quanto sia importante nella vita, specie nelle relazioni, entrare in “vibrazione” con l’altro, percepirne lo stato d’animo, specie se si esercitano professioni che entrano prepotentemente a contatto con le emozioni, i sentimenti dell’altro?

Di sicuro il rispetto dei ruoli, va portato in entrambe le direzioni, non possiamo pretendere empatia se, noi per primi, non la offriamo.

All’uscita dall’ospedale l’ho presa sottobraccio rassicurandola, dai mamma adesso abbiamo capito da chi andare e lei, con gli occhi umidi di commozione, ha risposto “Mi manca la mia Rita, le volevo davvero bene”.

Questo è il lascito che dovremmo essere capaci di scrivere nelle persone che ci hanno conosciuto, indipendentemente da chi siamo, cosa facciamo, solo perchè siamo essere umani evoluti.

Mica facile…

Pimpra

3 GENERAZIONI E TANGO. LA CONVIVENZA CHE CI PIACE

Una volta in più, ce ne fosse mai stato il bisogno, la maratona di tango mi ha insegnato qualcosa. Non penso alle dinamiche evoluzioni dei tangueros, quanto agli altri insegnamenti che ne ho ricavato.

L’ho sicuramente già scritto in passato e lo ripeto oggi: ballare il tango è come rappresentare la vita, nel suo corso, nelle sue dinamiche, nelle sue relazioni. Ed è su questo ultimo aspetto che desidero soffermarmi.

Dopo due anni abbondanti di stop per pandemia, anche quando si poteva ballare con “con attenzione”, non mi sono affacciata alle milonghe, sono finalmente rientrata in pista direttamente in maratona (matta che sono!!!).

Riempiti gli occhi e il cuore di tutte le sfumature di emozioni, di stupore, di curiosità che potevo contenere, ho osservato le dinamiche relazionali perchè percepivo qualcosa di nuovo a cui non sapevo dare voce.

Al secondo giorno di ballo, tanto ballo, tanto bel ballo, ho capito: esiste una “frattura” abbastanza netta tra le generazioni che popolano la pista che, riassumo per brevità, in giovanissima, nuova e vecchia. La prima, arriva fino ai 30 enni, la seconda più o meno dai 30 ai 45, la terza dai 45 in poi.

Fascia 1 e 2 interagiscono discretamente, specie se i soggetti appartengono ai primi anni del secondo gruppo. Le cose diventano molto diverse con gli abitanti del terzo, i 45 enni e oltre, con una spaccatura decisamente evidente dai 50 in su.

Cosa significa?

Mirade che non arrivano o che scivolano via, scelte precise di campo: con la terza fascia no.

Se indossiamo gli occhi di un giovanissimo/a non è difficile immaginare come veda quelli più grandi: assolute mummie, sia in termini fisiologici che tangueri. Possiamo dare loro torto? Non credo, nel senso che anche noi a 20 anni e poco più non andavamo alla ricerca di un abbraccio così maturo, lontano dal nostro universo generazionale. Si sta con coloro che sentiamo “vicini” e, simpatia e bravura a parte, l’età è una discriminante potente.

Speravo in una maggiore democrazia tanguera nella relazione tra seconda e terza fascia, in special modo tra i più “vecchi” della seconda e i più “giovani” della terza. Anche in questo caso sono rimasta sorpresa. Certo l’interazione c’è, è più fitta che tra la prima e la terza, ma con riserve.

Uomini e donne volgono lo sguardo – preferibilmente – ai giovani che rappresentano la novità sia in termini di ballerini/e, sia in termini di “freschezza” fisica. E come fai a non accorgerti della bellezza ingenua e potentissima di un corpo non ancora segnato dal tempo, dell’energia vitale e sessuale che emanano i ragazzi/e? Come fai? La vedono tutti, i coetanei, e quelli più grandi.

Far parte, oramai, della “vecchia guardia” temevo diventasse un problemone difficile da gestire psicologicamente nel senso che a nessuno piace essere trasparente, non essere quello scelto o prescelto, insomma diventare parte della tappezzeria della sala. E sticazzi!

L’insegnamento che ho colto è agire un sano distacco dalle dinamiche che mortificano la propria autostima, le mirade che non vanno a segno non sono un fallimento di tutto, la “Waterloo della tanguera”, nel mio caso, ma semplicemente una delle possibilità che accadono in milonga.

In maratona ho mirato incuriosita dei ballerini che nemmeno se fossi caduta tra le loro braccia, si sarebbero accorti di me, e infatti non si sono accorti di me, allora? dove sta il problema? Ho scambiato altri sguardi andati a segno che mi hanno portato a tandas che mi hanno felicissimamente sorpresa, divertita e fatta emozionare.

Ognuno di noi, se messo nella possibilità e ribadisco “possibilità” di scegliere, lo fa secondo criteri unici, individuali, personalissimi: chi cerca un corrispondente tecnicamente affine, chi predilige la sensualità della persona, chi la simpatia, chi vuole quello/a “famoso/a” ecc ecc. Quindi se, malauguratamente, non siamo destinatari di “attenzioni” leggi mirade, non siamo noi ad essere “sbagliati” in alcun modo, semplicemente non corrispondiamo alla sfera del gusto dell’altro. Facile no?

Nel tango, come nella vita, è chiaro che bisogna viaggiare leggeri, rimanendo fluidi e resilienti. E così, dal nulla, arriva la tanda della serata, quella che aspettavi da anni e oramai non ci speravi più. Invece arriva…

Concludo dicendo che “Fin che c’è vita c’è speranza, fin che c’è il tango, c’è vita” e se in più ci aggiungo un sorriso è tutto ancora più bello!

Pimpra

IMAGE CREDITS MARCO VAGHESTELLE

LA GIAGUARA TORNA IN COLLEGIO

Ho chiuso le mie ferie estive con una bellissima gita a Marina di Massa. Scarpette da tango in borsa, tre amici deliziosi, chiacchiere e allegria.

La prima vera maratona dopo… 3 anni?! Un periodo infinito che ho vissuto in totale “astinenza”.

Ripresentarmi in pista dopo così tanto tempo ha richiesto una dose incredibile di coraggio e faccia tosta. Epperò, mi sono detta, dopo tutti questi anni, qualcosa sarà pure rimasto.

Basta organizzare la mente e il beauty: il mantra interiore ripeteva “Vai e goditela”, il beauty attrezzato con brufen e fiori australiani contro l’ansia. Questo è invecchiare in modo intelligente e furbo, dicevo a me stessa preparando il bagaglio.

Non potevo scegliere evento migliore. La Colegiala è una navicella spaziale che ti proietta nello spazio siderale del piacere e del divertimento. La location nella vecchia colonia della Fiat, in quegli spazi anni 30′ dove sono passate generazioni di ragazzini, la spirale sulla quale si affacciano le camere, spartane come un monastero, ma, alla fine, dotate di ciò che è strettamente necessario, creano un’atmosfera unica.

La proposta della serata a tema, manco a dirlo il sabato, è una provocazione in più per lanciarsi in creative mise che, di solito, in pista, producono un effetto esilarante.

Ho sentito per la prima volta dei Dj che lavorano in tandem. Mi sono chiesta il perchè in coppia rispondendomi che, in questo modo, la pausa pipì non interrompe il flusso musicale. Probabilmente non è la risposta giusta, ma solo il punto di vista da donna che ha più spesso necessità di… “blin blin” 😉

Oltre all’accoglienza calorosa dello staff molto nutrito, che peraltro ho sempre ritrovato in ogni edizione, sono stata letteralmente abbracciata dalla straordinaria energia positiva dei partecipanti.

Ho incontrato persone che vedevo solo nei pixel virtuali del pc, ho rivisto amici che, nel frattempo, hanno allargato la famiglia, è stato un tripudio di sorrisi e di abbracci.

La buena onda alla Colegiala, nasce già fuori dalla pista, in questa vibrante allegria che i padroni di casa spruzzano nell’aria, i ferormoni della felicità.

In tutto questo, il mio tango arrugginito, dal sapore “vintage”, si è riaffacciato alla pista risalendo verso il cuore, emozionandomi, divertendomi, lasciandomi sorpresa, dando una sferzata di Vita a tutta me, facendomi sudare (di più) per l’emozione, facendomi (ri)sentire fibre del corpo di cui non ricordavo l’esistenza.

La magia era tutta lì, davanti ai miei occhi e non me la sono lasciata sfuggire.

(Felice me).

Pimpra

CHI BEN INIZIA

Ci pensavo in questi giorni facendo colazione, ascoltando Nicoletta Carbone (“Obiettivo salute”, radio 24, n.d.r.) promuovere stili di vita salutari, che tutto sommato faccio vita sana: mi sveglio presto al mattino, mangio in modo corretto, non bevo, non fumo e faccio movimento/sport.

A ben pensarci è la storia della mia intera esistenza, salvo qualche periodo di peccatucci alcolici dovuti vuoi alla giovane età, vuoi a periodi bui dell’esistenza, per fortuna totalmente risolti.

Lo sport mi accompagna dalla più tenera età, sicché mi ritrovo nel mio autunno biologico, tutto sommato, in discreta forma complessiva.

Ovviamente mai dire che “va tutto bene” perché in quell’esatto istante una tegola ti colpisce in testa, infatti così è stato, non essendo esente dalla tradizionale sfiga. La piccola disavventura mi ha costretta a modificare completamente le mie abitudini.

Ho iniziato a camminare come la più convinta ForrestPimpra. La cosa di per sé nemmeno male ma ingestibile nell’economia di una vita moderna carica di cose da fare. Ecco che, per la prima volta dopo l’infanzia, nella mia vita, è tornata prepotente la bicicletta.

Sto finendo di allestirla per rispondere alle mie esigenze, nel frattempo, assaporo l’esperienza.

Dopo pochissimi giorni di utilizzo, noto degli incredibili benefici, non tanto sul fisico tout court, quanto sull’umore.

Quei pochi minuti che, sulle due ruote, separano la mia abitazione dall’ufficio, mi regalano una sferzata di gaiezza e divertimento fanciulleschi che non provavo da tempo.

Una giovanile signora di mezza età che porta una bici fichissimamente tecnologica, cattura lo sguardo quasi come un paio di Louboutin tacco 12, non l’avrei mai detto, invece è così! A onore del vero, il negoziante dove ho acquistato la mia meravigliosa bici lo aveva pronosticato (in triestino) “Te vederà in quanti adesso te farà la tira! Non te poderà creder!” (Vedrai quanti [uomini] adesso ti corteggeranno! Non ci potrai credere!). Infatti, non ci potevo credere ma…

Ad ogni semaforo sento appiccicati gli sguardi degli scooteristi (maschi) che studiano il mio mezzo, la bici è davvero carina da matti, poi guardano me, strabuzzano gli occhi, mi guardano le gambe e, me ne sono accorta, pure il sedere. Questi sono “gli invidiosi”.

Poi c’è la categoria di quelli che definisco “anime ambientaliste” che, con lo sguardo, benedicono ogni ciclista perché é il solo a non inquinare l’aria con i suoi scarichi gassosi. Li vedo che mi guardano, mi seguono con lo sguardo e mi rivolgono un sorriso aperto e gentile che, puntualmente, ricambio.

Oggi, al semaforo, mentre mi faccio più piccola di quanto non sia già per non intralciare i mezzi a motore, un ragazzo in autobus, mi ha agganciato con lo sguardo, sorriso e salutato con la mano. E che faccio non gli rispondo? Ovvio che sì.

Queste piccole gentilezze, le occhiate benevole dei vecchiettini che mi sono grati quando li lascio passare sulle strisce perdonali, le occhiate di complicità con i ciclisti come me, e la cascata di endorfine che si attivano con il movimento, mi fanno arrivare in ufficio decisamente di buon umore.

Oggi la sfida è impegnativa: tira bora forte, in scooter so come si fa… speriamo che in bicicletta sia più o meno la stessa cosa e che nostra Signora Bora Nera non mi porti in trionfo… tié facciamo le corna!

Pimpra

SONO UNA CICLISTA URBANA. IN ERBA.

Un mese fa, un martedì qualunque, mi è capitata una disavventura, un improvviso svenimento che mi costringerà ad un lungo periodo di stop, precauzionale, dalla possibilità di condurre mezzi a motore.

TRAGEDIA.

Abito in semi periferia, in una zona malservita dai mezzi pubblici e poi, inutile dirlo, sono una scooterista fin dentro al midollo, piuttosto che prendere il bus vado a piedi.

Così ho fatto: 30′ di camminata vivace ad andare (in ufficio), altri 40′ per tornare (è salita tutto il percorso), tempo perso per ogni attività debba fare in città.

I primi giorni camminare non era nemmeno un fastidio e, di fatto, non lo è nemmeno adesso, il problema è il tempo che perdo durante il tragitto. Di certo riempio questi momenti saturando le orecchie di telegiornali, ascolto le rassegne stampa, insomma arrivo a destinazione mediamente piuttosto informata di politica ed economia, quindi bene. Il problema sono le ore che mi mancano per fare le attività ordinarie della mia routine quotidiana.

Un giorno, presa dallo sconforto ho deciso: bici elettrica.

Va detto che a Trieste, la bicicletta non è precisamente il mezzo più utilizzato per muoversi, complici le salite di cui la città è costellata. La tecnologia, in questo senso aiuta, poiché la spinta offerta dal motorino elettrico permette di affrontare ogni asperità di percorso.

Così oggi festeggio il mio giorno n. 1 da ciclista urbana.

Ho ritirato nel pomeriggio il mezzo e, con un’adrenalina che non posso descrivere, dopo le necessarie spiegazioni d’uso, mi sono immessa nel traffico.

Un altro mondo, un’altra sensazione, un velato timore, i sensi in allerta, attenzione ai suoni, ai movimenti, e poi le gambe a spingere, il respiro da regolare, gruppi di muscoli che dopo poco ti raccontano che non li hai usati per troppo tempo.

Una scoperta anche piuttosto gioiosa.

Devo mettere mano all’armadio, rinnovare l’abbigliamento tecnico che per lo scooter funzionava ma non è adatto alla pedalata. Una piccola grande rivoluzione.

Il mio giorno n. 1, ho pedalato con Scimano a 7, aiuto batteria low. Alla fine avevo mal di gambe.

Sono una figa, super atletica. Lo so.

Pimpra

MOBILITA’ SOSTENIBILE E PROBLEMATICHE DA RISOLVERE

Dopo una vita passata a scorrazzare sulle due ruote dello scooter, mi trovo catapultata – non per mia volontà – nel mondo della mobilità sostenibile, in una parola, per un anno niente motori per la sottoscritta unicamente bicicletta.

Considerato che la città in cui abito si connota per continui saliscendi, la mia scelta verso un velocipede elettrico è stata quasi obbligata.

Ho scoperto un universo di possibilità, di modelli, di performance del mezzo accumunati da una costante: il prezzo esorbitante (almeno per le mie tasche bucate).

Fino ad oggi, e sono trascorsi quasi 30 giorni senza poter guidare alcunché, sono sopravvissuta, nel senso che, casa mia, dista praticamente un raggio di 3 km dalle mete cittadine che mi interessa o devo raggiungere. In pratica: ho camminato assai, tutta salute, certo, ma un discreto e non sempre possibile, dispendio di tempo. Finisce che devo mettere sempre in conto 30′ (più o meno scarsi) di tragitto per raggiungere le mie destinazioni. Ovviamente altrettanti per il ritorno.

Stavo per comprare una bici elettrica da una fabbrica polacca trovata sul web, poi però, una visita informativa presso un rivenditore locale, mi ha fatto cambiare idea.

Morale della favola: sto aspettando la piccola Ferrari, come altro chiamare un mezzo con quel prezzo?!, che dovrebbe arrivare in settimana. Nel frattempo cammino e osservo.

Noto come, nonostante ovunque si parli di mobilità sostenibile, di lotta all’inquinamento e tutti i bla bla bla del caso, ad esempio, manchino quasi del tutto gli stalli dove poter correttamente e con un minimo margine di sicurezza, posteggiare il prezioso mezzo a due ruote.

Questa bici, dove la assicurerò mentre sarò in palestra? Dalla parrucchiera? A bere l’aperitivo? Insomma in tutti quei luoghi cittadini in cui normalmente ci si reca?

PRATICAMENTE DA NESSUNA PARTE!

Capite bene l’angoscia che mi sta salendo all’idea di non trovare un luogo idoneo di parcheggio, dove alloggiare il prezioso bene in potenziale balia di ladri.

Vero è che nessuno stallo protegge le biciclette dalla possibilità di essere rubate e mi chiedo come fanno i possessori di questi mezzi elettrici così costosi a fare sogni tranquilli. Ho decisamente un mondo tutto da scoprire.

Nel frattempo, come una bambina di 4 anni, non vedo l’ora di ricevere la telefonata del rivenditore che mi annuncia “Signora, può venire in negozio, la bici è arrivata”.

Pimpra

IMAGE CREDIT DA QUI

ZIBALDONE D’AUTUNNO

Domani entriamo nella nuova stagione, capitolo che si apre, almeno qui nel lontano nord est, con una giornata di bora festosa, capace di rallegrarci con le sue raffiche pur rinfrescando decisamente il l’atmosfera.

Mi sembra ieri quando tornavo dalle vacanze, una settimana di mare a cavallo tra agosto e settembre in un’isola piccola come una gemma preziosa. Periodo ideale, meno gente, meno caldo, meno generale frenesia.

Il primo giorno d’autunno rappresenta un nuovo inizio: gli studenti tornano a scuola, le vacanze sono riposte nello scrigno dei bei ricordi, ognuno di noi pianifica le attività invernali, immaginando i più svariati progetti.

Quest’anno percepisco una nota diversa, quasi si trattasse di una doppia rinascita.

Riprendono anche le attività ludico/culturali, nonostante la serie di paletti dettati dalla situazione contingente. In palestra, a dio piacendo, si può accedere già da un po’ e così pure al cinema e al teatro. Rispetto al tango, francamente non mi è chiaro lo stato dell’arte da un punto di vista legislativo, ma, da quanto leggo e vedo, mi pare che l’attività sia ripresa alla grande. Mi sembra un miracolo.

La bacheca di FB si sta ripopolando di immagini di persone che ballano, che vanno a maratone a festival, tornano gli inviti agli eventi in presenza e la sensazione è che pure il respiro abbia ripreso a pieni polmoni.

Quest’anno e mezzo di stop forzato ha lasciato degli strascichi, togliendomi parzialmente quella gaiezza esagitata che è tanto parte di me. Manca la scintilla che avevo sempre in questo periodo, vivo da troppo tempo in uno strano stato di quiete che non mi appartiene, come fossi imprigionata dentro una bolla.

Poi però stamattina, prima che la sveglia mi riporti nel mondo, la prima gatta mi raggiunge a letto strusciando il muso sulla mia mano addormentata, appagata dalle carezze si accovaccia appoggiata a me e inizia il suo canto vibrato di fusa. Passa qualche istante e la raggiunge la sorella che trova il suo posto insieme a noi, in una sorta di puzzle di pelo e zampe, infine, ultimo solo perché maschio e distratto, con un gran clamore di miagolii richiedenti attenzione, si presenta il piccolo della famiglia, sale sul lettone pure lui, malamente accolto dalle Gattonzole che gli intimano di stare lontano da me. La burba obbedisce e prende posizione, ultimo della fila ma parte del gruppo.

Mi risveglio così, circondata di amore felino, accolta da una frizzante giornata “tipicamente triestina” di bora e penso che non c’è motivo per essere tristi o demotivati, è iniziato l’autunno e tutto va bene.

Buoni nuovi inizi a voi tutti!


Pimpra

 

16.00

 

LA SUPER EMPATIA

C’era un tempo in cui una persona a me vicina mi definiva “La signora Alberti” appellativo conquistato sul campo a forza di “consulenze del cuore” offerte a piene mani ad amici e conoscenti.

E’ così da quando sono poco più di una bimbetta che alcune persone, mosse da non so quale ragione, mi venissero vicino a chiedere consigli.

E’ molto facile, per me, mettermi nei loro panni, ascoltarli, ragionare insieme sulla situazione e darne la mia personale interpretazione. Giusta o sbagliata che sia, ha sortito sempre un positivo effetto sulla persona perché, almeno, si sente ascoltata.

La mia passione per l’animo umano doveva – probabilmente- diventare la mia professione, ma altre strade hanno preso il sopravvento, e tant’è.

Ciò detto, ho riscontrato incredibili e profonde ferite esistenziali, in quella categoria di persone che possiedono un dono preziosissimo: la super empatia.

Da Treccani

Empatia

In psicologia per empatia (termine derivato dal greco ἐν, “in”, e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, “soffro”, sul calco del tedesco Einfühlung), si intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale. Il termine viene anche usato per indicare quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

Voi capite che questa capacità di comprendere va assolutamente gestita, poiché, trattandosi di un’energia psichica potentissima, come una macchina sportiva, bisogna saperla guidare.

Uno dei rischi più grandi che corre l’empatico (per non parlare del super empatico, colu* che è così sensibile e in connessione da anticipare desideri, sensazioni dell’altra persona), è di perdere completamente la capacità di percepire/analizzare i dati oggettivi, i comportamenti reali, la situazione che condivide con l’altro.

Di solito sono queste persone così dotate che si mettono a completa disposizione, ascolto, supporto, sostegno… dell’altro perdendo completamente di vista se stessi, i loro desideri, la loro vita, divenendo, molto spesso, bersaglio prediletto di coloro che- assolutamente privi di empatia, ne fanno fonte primaria di approvvigionamento, in tutti i sensi che vi vengono in mente.

L’empatico, diciamocelo, se non è ben strutturato, è il primo dei fragili, di quelli che vengono manipolati e manco se ne accorgono, tanto il loro cuore è buono e pure fesso diciamocelo.

Di contro, bisogna dire che l’empatia non si insegna, è la capacità di entrare in vibrazione con altri esseri viventi, animali, piante, in modo così forte da riuscire a creare relazioni, legami.

Faccio parte pure io della squadra dei super empatici.

Fino ad ora, lo ammetto senza reticenze, ho avuto molti riscontri “di cuore” che mi hanno regalato un profondo senso di gioia, ma, molte più ferite e dolori inferti da quelle persone che l’empatia non sanno manco come si scrive.

La cura l’ho trovata, e mi ricollego a quanto ho scritto poco sopra: l’empatia è una macchina da corsa, potentissima, bisogna saperla guidare o ci si schianta.

Come si impara? Innanzitutto convergendo quelle potentissime antenne vibrazionali all’interno di noi stessi, non verso il mondo, come sempre facciamo, andando a scoprire chi realmente siamo, cosa nascondiamo, quali sono le NOSTRE ferite che non ci diamo mai il tempo di curare.

Fatta la connessione tra l’io e il me, bisogna STUDIARE, approfondire, andare alla ricerca di quel senso profondo di cui percepiamo la nota sonora ma facciamo fatica a cogliere l’intera melodia.

Quando l’orchestra che siamo comincerà a suonare e noi ad ascoltarla, sarà il giorno in cui la nostra empatia, non solo aiuterà chi ci verrà vicino, ma non permetterà a nessun* di usarla contro di noi.

Pimpra

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