HOBBY-TERAPIA

Per tutta la vita non ho mai smesso di indagare ciò che potesse piacermi, perché, come una folta schiera di persone, sono nata con idee poco chiare riguardo il mio futuro e i sogni da realizzare.

Per lunghi anni, mentre provavo a fare questo e quello, senza mai trovare quella scintilla così potente da conquistarmi fino in fondo, invidiavo tutti coloro che, al contrario di me, avevano molti interessi.

Ho fatto di tutto. Millemila sport, ho provato a svolazzare e a sperimantarmi in molti ambiti ma… niente da fare, nulla che mi catturasse fino in fondo.

Gli adulti, percependo il mio argento vivo, che denotava sicuramente molta energia vitale ma altrettanta inquietudine, mi suggerivano continuamente di cercare un hobby, di fare meditazione che sicuramente mi sarei calmata, avrei sconfitto l’ansia e sarei stata meglio, e pure loro di conseguenza.

Niente da fare.

Il tempo passa e per mia fortuna di passioni ne ho avute molte, dall’atletica leggera dei master al mio amore infinito, il tango. Ma questi sono pezzi di cuore, parti di me, come una gamba o un occhio.

Un giorno ci colpisce la pandemia e il mondo si ferma, l’umanità intera entra dentro l’incubo, restiamo chiusi in casa, non possiamo più toccarci, baciarci, stare insieme. Cadiamo come birilli dentro noi stessi, facendo uno strike con tutti i nostri fantasmi che ci accolgono, terrorizzandoci.

Ci scopriamo fragili, spesso senza un senso, senza una direzione nella nostra vita. Ci limitiamo a dare tutto di noi stessi in una corsa verso il vuoto, davanti alla linea di un orizzonte che non abbiamo disegnato con i nostri pensieri e meno che meno con i nostri sogni.

In tanti siamo ancora così, completi incravattati che si agitano nel mondo delle abitudini, manichini svuotati e sempre più grigi, soli e tristi. Litighiamo per nulla, ogni motivo ci spinge ad odiarci gli uni contro gli altri perchè, nel profondo, odiamo noi stessi.

Siamo stati costretti a fermarci per due anni, in questa pausa non abbiamo potuto scappare, nasconderci. Eravamo lì, di fronte a noi stessi, ma non ci conoscevamo. Incontrare se stessi per la prima volta, a qualunque età ciò avvenga, è un’esperienza molto forte, anche difficile da reggere, ma necessaria.

Sono una sopravvissuta. Ho grattato tutte le superfici che ho scoperto, mi sono spaventata dal buio di certe stanze, dal calore emanato da taluni ricordi, ma non sono più scappata.

Natale arriva tra pochi giorni ma a me il regalo lo ha già portato, da qualche tempo. Ho ritrovato le mie compagne del liceo che pure loro ne hanno passate tante di vicissitudini, tante. Ci siamo ritrovate unite da un filo, di cotone prima, di lana adesso. Il Circolo Creativo si riunisce con una certa assiduità ma senza rigide regole, così come la situazione impone. Oltre all’incontro, sempre estremamente nutriente, con le donne che sono diventate, ho trovato – finalmente – il mio hobby, quello che per una vita ho cercato invano.

Mi piace usare l’uncinetto, che mi sembra di tenere in mano una penna, mi piace percepire il filo che scorre tra le dita, adoro i colori che mi passano sotto lo sguardo e la materia che piano piano prende forma. La mente entra in meditazione, uno stato di estremo relax che non è lassità come quando si galleggia inerti sul divano, è un relax attivo, la mente è vigile ma “vuota” da tutti i pensieri, le ansie, i turbamenti che la sporcano.

Mentre metto mano al mio lavoro passo il tempo in perfetta solitudine, quella che fino a poco tempo fa mi faceva così tanta paura e mi rendeva triste, adesso è mia amica, una cara e preziosa amica. La solitudine ascolta il mio cuore, risveglia i ricordi, mette in fila i pensieri, crea l’ordine in modo naturale dove prima c’era solo il caos.

Se state leggendo questo post e siete tra coloro che affermano di provare brutte sensazioni in questo tempo recente, se vi sentite irrequieti, tristi, provate, provate a cercare il vostro hobby, vi garantisco che è una potentissima terapia dell’anima.

Pimpra

Ps a Trieste i filati si comprano da Culot in via delle Torri, 2. Oltre alle lane e co. i consigli, le indicazioni della Roberta sono in assoluto il valore aggiunto.

UN 2021 DA FESTEGGIARE

Mancano due settimane alla fine di un anno che mi ha dato molto. Pandemia, limitazioni di vario genere, non hanno ostacolato ciò che doveva sbocciare, di farlo.

Lo voglio scrivere, l’elenco delle cose belle che ho vissuto, dei momenti di crescita potente che ho affrontato, delle risate, delle lacrime, delle avventure.

Il 2021 però, sarà da me ricordato come l’anno in cui, per la prima volta, ho veramente incontrato me, il che ha dell’incredibile, stante l’età anagrafica, ma così è.

Una gioiosa scoperta che mi accompagna ogni giorno e mi sorprende ogni giorno.

Ma andiamo per ordine.

Dopo un periodo assurdo, lunghissimo, di mobbing lavorativo, una mano santa (grazie E.) mi ha tolto dall’inferno aprendomi a nuova vita. Cosa c’è di più bello di andare al lavoro contenti?

Le endorfine della nuova esperienza, mi hanno risvegliato e aperto gli occhi su molte situazioni stantie e pesanti della mia vita, alle quali ho finalmente messo mano. Mica facile, sia chiaro, lacrimoni tanti, notti insonni tante, ma poi la vita torna a trovarti e il sorriso si affaccia nuovamente sul volto.

La primavera ha portato un nuovo gatto, il primo maschio felino della mia vita, che dopo aver scompigliato le abitudini, sta mettendo ancora più allegria in casa.

L’estate ha regalato giocose esperienze, la prima vacanza da sola con mia nipote, il tuffo da una falesia che quando ci sono salita mi sono detta “e adesso chi mi riporta giù?” ma mi sono tuffata lo stesso, gite stimolanti, sedute in spiaggia che non mi concedevo da anni.

Ho vissuto il mio primo (e spero ultimo) svenimento della vita, un’esperienza della quale avrei fatto volentieri a meno ma che mi ha permesso di scoprire quanto bello sia muoversi in bicicletta.

Ho fatto il primo “maglioncino a presine” della vita, così come lo hanno soprannominato gli amici maschi trovandolo assolutamente orrendo, ma a me non interessa perché non mi pare vero di essere riuscita a farlo e quindi lo amo tantissimo e lo indosserò pure.

Sto imparando che posso spostare il mio limite se lo faccio con intelligenza e, soprattutto, con pazienza, credendoci, impegnandomi ed essendo consapevole che dentro di me ci sono risorse enormi di cui manco mi rendo conto.

Una frase scritta su FB mi ha regalato un percorso di coaching che mi ha messo in mano strumenti che mi rendono più forte e resiliente.

Non mi peso più come facevo un tempo, accetto con amore le curve del mio corpo e le rughe che fanno capolino.

Ho tagliato i capelli perché non mi rappresentavano più.

Il 2021, nonostante tutte le difficoltà mi ha resa una donna nuova, ed è così che lo voglio festeggiare.

Pensate positivo, agite positivo, voletevi bene. Le cose, poi, trovano il modo di sistemarsi.

Pimpra

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DA GIAGUARA A GATTARA E’ UN ATTIMO

Ho ancora un’immagine molto chiara di me quando, lunghi anni or sono, iniziai a muovere i primi passi in pista, indossando le prime scarpette da tango con il tacco a rocchetto.

Mi pareva di essere l’incarnazione di Carla Fracci in versione tanguera, per quanto il mio animo si rallegrava e fluttuava nell’aria alle prime note di un tango.

Nel fluir del tempo e delle ore passate a ballare, anche io fiorivo insieme ai progressi regalati dallo studio, dall’entusiasmo che ci ho sempre messo, dalla voglia di diventare la migliore versione di me stessa bailarina.

La fioritura, devo riconoscerlo, si è manifestata con i frutti più belli nella donna che sono diventata, tanto che, ad un certo punto, anche indossare tessuti dalle stampe rubate a tutti gli animali della savana, mi sembrava assolutamente adeguato alla Giaguara che ero diventata.

Poi, un giorno, tra capo e collo, arriva il virus che spariglia le carte e mi trovo in astinenza da 24 mesi. Un tempo inimmaginabile, eterno, infinito in cui non ho messo più piede in pista.

Per sopravvivere al digiuno forzato che mi ha tenuto lontano dalle piste, in casa mi è arrivato un nuovo gatto, ed ecco che ho toccato con mano la mia nuova mutazione genetica: da giaguara a gattara.

Abbandonati i tacchi per andare in bicicletta, ancora lontana dalle milonghe, non so nemmeno io il perchè, mi ritrovo l’armadio senza più pois, maculati di ogni tipo, e abiti ultra sexy.

Da giaguara a gattara. Fine della storia triste.

😀

Pimpra

Sguincettino la new entry

DI TANTO IN TANGO. TABU’ E QUESTIONI IRRISOLTE

Una accorata riflessione letta su FB (https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fmilatango%2Fposts%2F10160268758039311&show_text=true&width=500) scritta da una tanguera professionista che affronta uno dei perduranti tabù del tango: chiudere una tanda prima della sua fine naturale.

Mila è una ballerina che danza con i più grandi, quindi il fatto che abbia affrontato il tema, mi ha stimolato a riflettere sullo spinoso argomento.

Mettere fine a una tanda non è mai piacevole, significa che non si è trovato il modo di comunicare con l’altro, di intendersi, di parlare lo stesso linguaggio. I corpi e gli spiriti non hanno scoperto una via comune in cui incontrarsi, perchè non è solo il corpo che fa tilt ma, forse, di più, è lo spirito che si ribella.

Nella mia lunga esperienza ho memoria chiara di tande e di ballerini che meritavano di essere lasciati lì in mezzo, quasi da subito. Personalmente, non mi ha mai irritato se il partner fosse meno bravo di come sperassi o decisamente all’inizio del suo percorso, ho sempre detestato quelli che si portano la verità in tasca e se qualcosa non funziona è ovviamente solo colpa dell’altro.

Il tango come performance a dimostrare chi è di più. Grave errore, perché si “è”, in quanto ballerini, se si “è insieme”, altrimenti non funziona.

Noi donne, nel ruolo di follower, siamo forgiate a cercare le chiavi di lettura del partner di ballo, quindi, credo, siamo naturalmente più predisposte a cercare una forma di adattamento. Il limite però va sempre posto e definito: mi adatto ma fino a quando non diventa una tortura, anzi prima lo diventi, decisamente prima.

Come correttamente afferma Mila nel suo scritto:

I don’t mind dancing with people who are beginners, or not at level I can enjoy fully. I’m fact I do it very often and can even enjoy it. Enough to have some sensitivity and respect from the other side. But my body has limits. When I am maneuvered pushed and led in way that breaks my comfort and doesn’t leave me an escape I have very strong protest inside and I just can’t stand it, despite of any dipolomatic skills or social consequences. Where are the limits of acceptance?”

Va tenuto conto della sensibilità e del rispetto che il ballerino deve mettere nel proporre i movimenti, nell’abbraccio che offre. Spesso accade che il corpo della donna diventi una sorta di fantoccio da spostare e usare a beneficio di passi, di pesudo coreografie onanistiche.

Se la ballerina abbandona i giochi, casca il mondo, lesa maestà, etichetta sociale della stronza.

Per lasciare ci vuole coraggio, fiducia in sè e nel limite che si è disposte a sopportare, ci si deve voler bene. Il modo in cui cui si mette fine all’esperienza, quello richiede, a mio personale giudizio, doti di educazione (sempre), gentilezza e signorilità.

Se una donna è lasciata prima della fine, probabilmente scatteranno le stesse pesanti emozioni che prova il lui abbandonato in pista.

Ma il punto non è questo, secondo me.

Quando l’alchimia non funziona la miglior soluzione è porre fine alla reciproca tortura, con la consapevolezza che non è messo in discussione il nostro valore in quanto persone. Avviene un confronto silenzioso e sicuramente doloroso che riguarda però esclusivamente le nostre capacità/competenze di ballerini/e.

Immagino che se fossimo capaci di gestire lo stop forzato in modo costruttivo, imparando ad analizzare ciò che non ha funzionato, i nostri limiti oggettivi, i nostri margini di perfezionamento, da una apparente “sconfitta” potremmo rialzarci con ossa più forti, motivati a studiare di più e a metterci in gioco con maggiore determinazione.

E’ che siamo diventati fragili. Il rifiuto grava sul nostro amor proprio come una colpa pesante, accendendo la presunzione come ombrello a proteggerci dalla delusione di non essere abbastanza.

Forse qualche ginocchio sbucciato, qualche cerottino sull’autostima, ci farebbe tornare a giocare/ballare più allegri di prima.

Pimpra

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Manco da questo schermo da parecchio, non che sia un male, per carità, ma non posso fare a meno di tornarci, di tanto in tanto.

La metà di novembre è oramai già alle porte, siamo dentro l’autunno profondo che porta con sè colori stupendi e i primi freddi. Tutto sta nel farselo piacere, come ogni mutamento, necessario, che la vita ci propone.

La normalità sembra nuovamente lontana, almeno a casa mia, Trieste, diventata vessillo di protesta e focolaio di numerosi contagi. Capoluogo spaccato a metà, diviso tra il pensiero illuminista di città della scienza e il moto libertario degli oppositori.

La frattura sta creando un maremoto di scontento e di aggressività a tutti i livelli, legami che si spezzano, coltelli che volano e parole taglienti che piovono da ogni dove.

A questa energia potenzialmente deflagrante, aggiungiamo un nuovo picco che la sanità locale sta vivendo a causa dell’impennata di contagi, specie a Trieste.

Da qualche giorno spira la bora. E’ arrivata finalmente e con lei quel cielo azzurro invernale saturo di una luce argentea. Faccio fatica a sentire il suo canto, a volte urlato altre sussurrato in gemiti lievi. Il malcontento delle persone copre la melodia frusciante delle foglie in caduta libera, difficile accorgersi degli uccelli che organizzano i loro nidi invernali.

Anche quest’autunno è fuori dalla normalità del prima. Non siamo riusciti a sconfiggere il virus burlone che ci illude di una vittoria e poi torna più fastidioso che mai.

Anche il tango ne risente, di nuovo. Oltreconfine un festival annunciato mesi addietro è stato revocato a causa della situazione molto pesante di contagi. La quarta ondata, dicono.

Come molti di voi, oramai non ascolto più, notizie nefaste entrano da un lato ed escono a velocità subsonica, dall’altro. Sono stanca dei dibattiti che tirano la copertina e ti lasciano scoperti i piedi o il busto, ognuno a lottare per l’idea che si è fatto della situazione.

Basta, non ne posso più.

Nel mentre questo film surreale mi scorre accanto, pedalo nel vento, respiro, sento male ai muscoli delle gambe, mi compiaccio del cuore che pulsa più veloce.

E continuo a godere della Vita, ad apprezzarne ogni piccola sfumatura, a svegliarmi sorridente al mattino. A fanculo il resto.

Pimpra

IMAGE CREDIT: DRAZEN NESIC

ELEGIA ADRIATICA

image credit Alessandra Cechet

Sono una sostenitrice accanita della “poetica delle piccole cose”, istanti di vita quotidiana che si palesano allo sguardo carichi di bellezza.

Vivo in una piccola città del lontano nord est adriatico, uno scrigno di tesori disseminati qua e là dalle raffiche di bora.

Dalle alture del carso, le generose fronde degli ippocastani centenari delle osmize offrono un approdo di gioiosa tranquillità, fino a scendere in riva al mare, dove il respiro dell’Adriatico infrange, sugli scogli di Barcola, la sua risacca.

Un piccolo mondo fatto di tante delicate perle, le passeggiate in Cittavecchia, arricchite dalla gaiezza di numerosi localini che offrono ai curiosi ogni tipo di scelta enogastronomica.

Ai triestini piace fare festa. Nella consuetudine burbera di alcune giornate in cui i volti che si incrociano per strada sono piuttosto tesi, manifestando un conclamato fastidio, specie il lunedì, arrivata l’estate, si rilassano in un giocondo sorriso.

La casa è rifugio obbligatorio solo in certe gelide giornate d’inverno, quando la bora nera si impossessa della città frustandola con le sue spire di ghiaccio. Solo allora, le pareti domestiche diventano ricovero necessario e quindi amato.

Ma d’estate…

L’invito dell’amica del cuore a fare il “TOCETO” del tardo pomeriggio, a Barcola. Ci andiamo in scooter, in doppia, approfittando del tragitto per scambiare una trama fittissima di parole. La costa è popolata come fosse giorno, non me lo aspettavo. Si direbbe che verso le 18.30 ci sia proprio un “cambio di turno” tra coloro che hanno trascorso l’intera giornata al mare e i nuovi arrivati.

Il sole è basso e poco prima dell’abbraccio al mare, colora l’orizzonte di un rosa intenso che sfuma in una calda nota arancione.

L’acqua è tiepida, offre un’immersione di liquido amniotico, il corpo si rilassa lasciandosi accarezzare dalle lievi increspature del mare.

Dalla bisaccia escono due calici, una piccola bottiglietta e del melone a tocchi, l’aperitivo perfetto, nel luogo perfetto, con la compagnia giusta.

Tutto vibra di gioia satura che mi viene voglia di fare il ponte, lì, sul mio asciugamano. La mia amica si vergogna un po’ ma mi lascia fare, è abituata oramai alle mie stranezze.

Il tempo ci scivola sulla pelle umida di salsedine, mentre ci godiamo questi attimi piccoli ed estremamente preziosi.

Tu chiamala estate.

Pimpra

CHI BEN INIZIA

Ci pensavo in questi giorni facendo colazione, ascoltando Nicoletta Carbone (“Obiettivo salute”, radio 24, n.d.r.) promuovere stili di vita salutari, che tutto sommato faccio vita sana: mi sveglio presto al mattino, mangio in modo corretto, non bevo, non fumo e faccio movimento/sport.

A ben pensarci è la storia della mia intera esistenza, salvo qualche periodo di peccatucci alcolici dovuti vuoi alla giovane età, vuoi a periodi bui dell’esistenza, per fortuna totalmente risolti.

Lo sport mi accompagna dalla più tenera età, sicché mi ritrovo nel mio autunno biologico, tutto sommato, in discreta forma complessiva.

Ovviamente mai dire che “va tutto bene” perché in quell’esatto istante una tegola ti colpisce in testa, infatti così è stato, non essendo esente dalla tradizionale sfiga. La piccola disavventura mi ha costretta a modificare completamente le mie abitudini.

Ho iniziato a camminare come la più convinta ForrestPimpra. La cosa di per sé nemmeno male ma ingestibile nell’economia di una vita moderna carica di cose da fare. Ecco che, per la prima volta dopo l’infanzia, nella mia vita, è tornata prepotente la bicicletta.

Sto finendo di allestirla per rispondere alle mie esigenze, nel frattempo, assaporo l’esperienza.

Dopo pochissimi giorni di utilizzo, noto degli incredibili benefici, non tanto sul fisico tout court, quanto sull’umore.

Quei pochi minuti che, sulle due ruote, separano la mia abitazione dall’ufficio, mi regalano una sferzata di gaiezza e divertimento fanciulleschi che non provavo da tempo.

Una giovanile signora di mezza età che porta una bici fichissimamente tecnologica, cattura lo sguardo quasi come un paio di Louboutin tacco 12, non l’avrei mai detto, invece è così! A onore del vero, il negoziante dove ho acquistato la mia meravigliosa bici lo aveva pronosticato (in triestino) “Te vederà in quanti adesso te farà la tira! Non te poderà creder!” (Vedrai quanti [uomini] adesso ti corteggeranno! Non ci potrai credere!). Infatti, non ci potevo credere ma…

Ad ogni semaforo sento appiccicati gli sguardi degli scooteristi (maschi) che studiano il mio mezzo, la bici è davvero carina da matti, poi guardano me, strabuzzano gli occhi, mi guardano le gambe e, me ne sono accorta, pure il sedere. Questi sono “gli invidiosi”.

Poi c’è la categoria di quelli che definisco “anime ambientaliste” che, con lo sguardo, benedicono ogni ciclista perché é il solo a non inquinare l’aria con i suoi scarichi gassosi. Li vedo che mi guardano, mi seguono con lo sguardo e mi rivolgono un sorriso aperto e gentile che, puntualmente, ricambio.

Oggi, al semaforo, mentre mi faccio più piccola di quanto non sia già per non intralciare i mezzi a motore, un ragazzo in autobus, mi ha agganciato con lo sguardo, sorriso e salutato con la mano. E che faccio non gli rispondo? Ovvio che sì.

Queste piccole gentilezze, le occhiate benevole dei vecchiettini che mi sono grati quando li lascio passare sulle strisce perdonali, le occhiate di complicità con i ciclisti come me, e la cascata di endorfine che si attivano con il movimento, mi fanno arrivare in ufficio decisamente di buon umore.

Oggi la sfida è impegnativa: tira bora forte, in scooter so come si fa… speriamo che in bicicletta sia più o meno la stessa cosa e che nostra Signora Bora Nera non mi porti in trionfo… tié facciamo le corna!

Pimpra

L’AVVENTURA INIZIA CON LA PRIMA PEDALATA

La scorsa notte ho faticato a dormire, esagitata come una bambina all’idea di cambiare mezzo di trasporto, di tornare alla bicicletta, come negli anni più verdi.

Diventare una ciclista urbana mette la donna di fronte a una serie di difficoltà da superare, in primis, il necessaire tecnico fondamentale per affrontare ogni tipo di meteo. Con lo scooter è uguale: sempre con me il kit da pioggia, così lo chiamo io.

In bicicletta la faccenda si complica poiché non ci sono bauletti contenitivi della mercanzia necessaria, sicché, lo zaino è il contenitore da usare (fino a che non attrezzerò il mezzo con le sacche laterali).

Problema n. 2 e siamo ancora sul tecnico: porto gli occhiali da vista, con il casco da moto, nessun problema, la visiera protegge da tutte le avversità metereologiche, ma in bicicletta? Il caschetto ne è sprovvisto, quindi, quando sarò sotto il diluvio, due le possibilità: tolgo gli occhiali e vedo quel che vedo oppure uso le lenti a contatto che mi danno un gran fastidio e che non sopporto quando lavoro davanti al pc, quindi dovrei organizzarmi per un “togli e metti” in ufficio. Fattibile e, temo, necessario.

Quando soffierà brutale la bora, affronterò il problema gelo, ma non adesso.

Lo zaino dicevo, dentro il quale devono starci: il kit da pioggia, il pranzo, il kit vestiti palestra, e, ovviamente la borsetta. Il solo elenco di questi oggetti richiede una capacità di non so quanti litri, cosa peraltro impossibile, considerato che mi devo muovere agile e lesta nel traffico cittadino.

La borsetta, dicevo, io che mi muovo portandomi dietro financo i mattoni di casa, ho dovuto micronizzare lei e il suo contenuto. Non lo credevo ma pure questo è stato possibile.

L’esperienza mi sta mettendo di fronte a una serie di sfide che, al momento, trovo più stimolanti che fastidiose, ma oggi è il mio giorno zero e, sebbene “bagnato”, mi sembra comunque molto fortunato!

Pimpra

SONO UNA CICLISTA URBANA. IN ERBA.

Un mese fa, un martedì qualunque, mi è capitata una disavventura, un improvviso svenimento che mi costringerà ad un lungo periodo di stop, precauzionale, dalla possibilità di condurre mezzi a motore.

TRAGEDIA.

Abito in semi periferia, in una zona malservita dai mezzi pubblici e poi, inutile dirlo, sono una scooterista fin dentro al midollo, piuttosto che prendere il bus vado a piedi.

Così ho fatto: 30′ di camminata vivace ad andare (in ufficio), altri 40′ per tornare (è salita tutto il percorso), tempo perso per ogni attività debba fare in città.

I primi giorni camminare non era nemmeno un fastidio e, di fatto, non lo è nemmeno adesso, il problema è il tempo che perdo durante il tragitto. Di certo riempio questi momenti saturando le orecchie di telegiornali, ascolto le rassegne stampa, insomma arrivo a destinazione mediamente piuttosto informata di politica ed economia, quindi bene. Il problema sono le ore che mi mancano per fare le attività ordinarie della mia routine quotidiana.

Un giorno, presa dallo sconforto ho deciso: bici elettrica.

Va detto che a Trieste, la bicicletta non è precisamente il mezzo più utilizzato per muoversi, complici le salite di cui la città è costellata. La tecnologia, in questo senso aiuta, poiché la spinta offerta dal motorino elettrico permette di affrontare ogni asperità di percorso.

Così oggi festeggio il mio giorno n. 1 da ciclista urbana.

Ho ritirato nel pomeriggio il mezzo e, con un’adrenalina che non posso descrivere, dopo le necessarie spiegazioni d’uso, mi sono immessa nel traffico.

Un altro mondo, un’altra sensazione, un velato timore, i sensi in allerta, attenzione ai suoni, ai movimenti, e poi le gambe a spingere, il respiro da regolare, gruppi di muscoli che dopo poco ti raccontano che non li hai usati per troppo tempo.

Una scoperta anche piuttosto gioiosa.

Devo mettere mano all’armadio, rinnovare l’abbigliamento tecnico che per lo scooter funzionava ma non è adatto alla pedalata. Una piccola grande rivoluzione.

Il mio giorno n. 1, ho pedalato con Scimano a 7, aiuto batteria low. Alla fine avevo mal di gambe.

Sono una figa, super atletica. Lo so.

Pimpra

QUALCHE DOMANDA DOVREMMO FARCELA

Classica routine del lunedì, una volta rientrata, incerta se indossare le scarpette e farmi una blanda corsetta, considerato che da un mese a questa parte mi reco e torno a casa dal lavoro a piedi, decido di fare la pigra e restarmene a casa.

La crew felina è in piena muta pelosa, pertanto mi sembra cosa buona e giusta, provvedere al passaggio dell’aspirapolvere. Conclusa l’operazione e svanita l’ultima molecola di volontà ginnica, nemmeno il videocorso di 20′ da fare a casa, mi metto ai fornelli per una bella cenetta sana e leggera.

Provvedo nel frattempo a cibare gli affamatissimi felini, poi la sottoscritta. La giornata volge alla sua parte più soave, il meritato relax che, di solito, è la mia cena consumata in solitaria, con la Zanzara che spara cazzate in sottofondo, il gingerino e il piatto verdure/proteine pronto sul desco e, il cellulare.

Ceno guardando Instagram che ha del demenziale, mi rendo conto, specie se penso alla mia età non più verdissima.

Niente, non carica il feed, metto e tolgo il wifi, cambio cellulare e continua a non funzionare. Non carica nemmeno FB, dannazione, e che cavolo pure watsup resta bloccato!

Tra un boccone di caponata e un sorso di gingerino, mando un sms al mio vicino di casa chiedendogli se pure a lui non va la rete che ne so forse a causa del maltempo. Mi risponde che il web è ok, solo l’universo Zuckerberg è bloccato.

MALEDIZIONE!

Il mio momento Panda della giornata è tutto in mano sua! Niente immagini, niente social, niente watsup, NIENTE.

All’improvviso mi sono guardata intorno, come sconcertata per quella “mancanza”, quel mio spippiolare sulla tastiera del cellulare, alla ricerca di stimoli che mi distraggono. Da cosa, non lo so, ma da qualcosa di sicuro.

Finito di cenare, con un certo latente fastidio, mi sono messa davanti alla tv e, guarda caso, nulla nella variegata proposta catodica è in grado di soddisfare la mia ANSIA di immagini.

Stamattina, pare, il problema sia risolto e mi sento più contenta.

Analizzo la reazione e mi rendo conto di quanto il mio comportamento sia stato malamente integrato in una logica che poggia sulla mia dipendenza. Male, molto male.

Ho perso la forza di leggere, perché faccio molta meno fatica a “guardare”, non riesco più a concentrarmi perché sono abituata ad essere invasa e pervasa da stimoli esterni, di un livello di complessità pari allo zero ma capaci di inghiottirmi.

Il buon Zuckerberg e tutti i suoi social/app collegati, per quanto mi riguarda, mi farebbero un gran servizio se andassero in down più spesso. Ho bisogno di risvegliarmi, di riprendermi da questa ipnosi collettiva, di rimettere in moto il cervello, quello che ho in dotazione, se esiste ancora.

Pimpra

IMAGE CREDITA DA QUI

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