LA MIA COPENHAGEN

Il desiderio irrefrenabile di andarci mi è arrivato inaspettato, un giorno di tarda estate, capitando per caso nella bacheca di una conoscente. Gli occhi hanno avuto un sussulto emozionato che si è riflesso immediatamente sul cuore: dovevo visitare quella città.

Complice il weekend del mio compleanno, invece del solito pacchetto infiocchettato, ho ricevuto una mail con il biglietto aereo e l’hotel. Stavo per svenire di felicità davanti al pc.

Ho volato con gli olandesi di KLM, una compagnia aerea che non mi ha mai deluso, sin da quando, in tenera età, vi volavo tra Medio Oriente e Africa, resta tra le compagnie aeree preferite.

L’aeroporto di Copenhagen mette immediatamente il viaggiatore in una dimensione di piacevolezza, non è rumoroso, luce gradevole ovunque e il pavimento di legno. Non potevo credere ai miei occhi. Molti spazi dove rilassarsi e familiarizzare con il famoso “Hygge”.

L’albergo in centro, una chicca in puro spirito danese, legno, luci, sedie particolarissime, caminetto, personale giovanissimo e super gentile, camera dai colori neutri, caldi e rilassanti. Mi sono sentita immediatamente a mio agio.

La bicicletta, per i danesi, è come lo scooter per i triestini: fondamentale. TUTTI la usano, non ne ho mai viste così tante, così “bizzarre”, tutte insieme. Utilizzarle in città è semplicissimo evitando la produzione di smog, inoltre si pedala in tutta sicurezza perché ogni superficie stradale prevede la corsia dei ciclisti, con semafori e segnaletica dedicati. Si raggiunge in poco tempo, ogni angolo della città, inoltre, si può agilmente posteggiare il mezzo ai supporti, o, quando occupati, si lascia la bicicletta in fila, senza tema che venga rubata, danneggiata o altro. Mi è sembrato un sogno.

Altro vantaggio del turismo su due ruote: si evita la psicofollia delle foto, si pedala e si guarda, si assimila il paesaggio e si apprezza senza distrarsi, senza il bisogno imperante di condividere sui social, si sta, si vive, si gode del momento, si pedala. Evviva.

Copenhagen sembra costruita a dimensione uomo, non è una città che cannibalizza, ma piuttosto accompagna. Ci si può fermare nei caffè, ci sono tantissimi luoghi in cui concedersi uno spuntino, spazi esterni da vivere, certo solo nei mesi caldi, altrimenti ogni luogo pubblico offre, comunque, la possibilità di una sosta.

Sono stata rapita dalla fusione architettonica di antico e moderno, dove il design dalle linee essenziali, dialoga e si armonizza al contesto urbano precedente. Il “diamante nero” merita una visita, non fosse altro per apprezzare l’affaccio sul canale della struttura e il suo legame con l’antica biblioteca reale.

A Copenhagen il verde dei parchi cittadini non manca, così come si percepisce che la media della popolazione è molto giovane.

La sensazione che ho avuta è che al nord dell’Europa certi stilemi sociali non trovino casa: la sera di San Valentino ho visto numerose compagnie di amiche cenare insieme e ridere di gusto, coppie in tutte le sfacettature e combinazioni possibili, godersi il romanticismo senza bisogno di nascondersi. Naturalezza, convivenza, comunità, convivialità sono concetti che si vivono, non solo parole.

L’ambiente e la sua cura sono un baluardo, non ho incontrato un solo bidone esplodere per l’immondizia, tutto si differenzia, in modo consapevole, come fosse naturale farlo. Lo stesso cestino della camera dell’hotel era diviso per tre tipi di raccolta. L’acqua da bere si trova spesso nel tetrapack per evitare la produzione di plastica.

Se si parla di danesi non si può prescindere da almeno tre delle loro fissazioni: le candele, la luce, le sedie che confluiscono tutte in quella dimensione dell’anima che si chiama “Hygge” (una sorta di “Cozy” inglese).

Gli spazi, e la cosa mi ha colpito molto, sono arredati spesso con giochi di sedie, poltroncine e divani, diversi per forma e design, tutti incredibilmente confortevoli. Non per nulla alcune delle più iconiche sedie del design mondiale, vedono la luce dalle mani di sapienti maestri danesi. Il legno spadroneggia negli arredi quasi ovunque.

I popoli nordici, complice il lungo inverno, le poche ore di luce, il freddo, vivono la sacralità del luogo, della compagnia, dell’ambiente, della famiglia. Ecco che ricreano le condizioni ideali dove stare, come starci e con chi.

Se non si raggiunge almeno il metro e settanta cinque di altezza ci si sente un vero tappo di bottiglia, sono una popolazione alta, alta, alta e tanto, tanto, tanto bella. Le sfumature di biondo dei loro capelli, gli occhi in tutte le gradazioni del blu, dell’azzurro con tocchi di verdi.

Il mio personale momento di gloria l’ho vissuto quando il receptionist danese mi ha chiesto se fossi svedese (a me!!!!), ridendo ho risposto “100 % italiana e poi sono troppo corta per essere una svedese”, lui ha insistito affermando con convinzione che la mia faccia ha i lineamenti svedesi, in quanto all’altezza ci sono svedesi piccole. Da questa affermazione mi sono cuccata il bell’appellativo “La svedese nana” che mi ha accompagnato per tutta la vacanza.

Sarà che fanno molto sport, oltre che andare in bicicletta, ma ho faticato a vedere persone che non fossero in perfetta forma fisica. Pochi, pochissimi abitanti per così dire in sovrappeso, deduco quindi che il freddo faccia bene perché in quanto a condimenti grassi e burrosi, formaggi e carne, colà siamo nel paradiso delle iper calorie.

A me l’aringa marinata comunque resta indigesta.

Passeggiando per strada con la faccia da turista, il volto paonazzo per il vento gelido e l’espressione felice (quante volte ho pensato “meno male che sono triestina e la bora mi ha abituato a questo freddo), ho ricevuto in regalo sorrisi dalle persone che incrociavo che mi pareva un miracolo.

I danesi sorridono. Non li ho visti musoni, nevrastenici, se c’è da aspettare si mettono in fila tranquillamente, non si agitano. Incredibile.

In Danimarca di Covid manco l’ombra. Nel senso che se c’è, e pure da loro c’è, è una delle malattie di cui non si fa battage ovunque come da noi. Nessun green pass, massima libertà e… che bello!

Ho avuto la sensazione che le donne danesi siano molto indipendenti, libere e in questo ho percepito quella gaiezza delle mie donne triestine. Non sono riuscita a fare la foto di un equipaggio di canottiere almeno sessantenni, una mattina gelida, con la barca d’appoggio in cui c’era una loro nipotina che le seguiva felice. La bellezza di queste gagliardissime signore, non ho potuto non salutarle, incitarle, mi hanno sorriso e salutato a loro volta.

Voglio trascorrere la mia pensione qui, tra i meravigliosi popoli vichinghi, anche se le birra non mi piace e il freddo lo sento eccome, a differenza loro, ma… mi è stato fatto notare “Chi ti mantiene a te?” e il mio sogno si è dissolto come un fiocco di neve sull’asfalto…

SE PREVEDETE UN VIAGGIO, ECCO LA MIA LISTA:

  • per la prima volta la Lonley Planet mi ha tradita: comprate una guida scritta post 2021, il covid ha tristemente cambiato molte cose (negozi spariti, siti chiusi ecc ecc)
  • non fate bancomat all’arrivo che non serve, si paga tutto con la carta, in alcuni luoghi il contante non è accettato
  • non si visita la Danimarca se non si va in bicicletta
  • la voce cibo influisce pesantemente sulle spese di viaggio, per noi molto molto costoso. Però a Copenhagen si può mangiare davvero bene, è una città particolarmente “stellata”. La ristorazione italiana molto presente.
  • concedetevi il tempo della sosta per apprezzare ciò che vi circonda e, perché no, chiacchierare con i locali. In una parola fate Hygge pure voi
  • ho assaggiato un cidro spettacolare, a 4,5% che mi è andato in testa immediatamente (sono completamente astemia) aveva un sapore buonissimo
  • fatevi consigliare sui dolci danesi che alcuni meritano, per me la scoperta il brunsviger.

Una volta desideravo visitare i paesi caldi, crescendo il nord sta rubando attenzione ed interesse. Adesso capisco il perché.

Pimpra

SOLO IO STO COSI’ ALLA C@@@O?

Oggi non è una buona giornata.

Ci sta. L’umore non decolla rimanendo a rullare sulla pista della giornata senza spiccare il volo. Ho messo in atto tutte le pratiche che conosco, sono pure passata per una degustazione di gommose e morbide davanti al pc, mentre lavoravo. Niente.

Allora ho detto a me stessa che il malumore va analizzato, bisogna “starci dentro” e, come sono entrata “in contatto con me stessa”, il detto malumore è aumentato in maniera esponenziale, allora sai che c’è, ho pensato non fosse una gran buona idea quella di “connetermi con me”.

Pausa pranzo, sono uscita, giornata fredda, splendidamente cristallina, di quelle per intenderci che non possono non regalarti benessere, sono andata a veder cazzate da Tiger che ha il potere di farmi tornare adolescente, niente, assortimento schifoso, solo giocattoli inutili e residui natalizi in liquidazione: mi ha quasi depresso di più.

Allora ho scelto un grande magazzino sulla strada per il caffè del pomeriggio: ho aggiunto strazio allo strazio vedendo merce pessima in qualità e gusto.

Il caffè era buono. Meno male.

Provo allora con la terapia musicale, mi faccio accrezzare le orecchie e l’umore (spero) da calde note funk/soul che mi ritemprano, ma non basta.

Ma che cosa mi succede? Dove sono finite le endorfine della mia esistenza? Dove si è accasciata la mia serotonina? In che paese si è trasferita la dopamina?

Non ne ho idea. So solo che rivoglio la mia vita, la mia vita di prima. Mi sento legata a un palo, alla catena, giro in tondo senza andare da nessuna parte.

Meno male che il sole è nuovo ogni giorno.

STICAZZI.

Pimpra

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HOBBY-TERAPIA

Per tutta la vita non ho mai smesso di indagare ciò che potesse piacermi, perché, come una folta schiera di persone, sono nata con idee poco chiare riguardo il mio futuro e i sogni da realizzare.

Per lunghi anni, mentre provavo a fare questo e quello, senza mai trovare quella scintilla così potente da conquistarmi fino in fondo, invidiavo tutti coloro che, al contrario di me, avevano molti interessi.

Ho fatto di tutto. Millemila sport, ho provato a svolazzare e a sperimantarmi in molti ambiti ma… niente da fare, nulla che mi catturasse fino in fondo.

Gli adulti, percependo il mio argento vivo, che denotava sicuramente molta energia vitale ma altrettanta inquietudine, mi suggerivano continuamente di cercare un hobby, di fare meditazione che sicuramente mi sarei calmata, avrei sconfitto l’ansia e sarei stata meglio, e pure loro di conseguenza.

Niente da fare.

Il tempo passa e per mia fortuna di passioni ne ho avute molte, dall’atletica leggera dei master al mio amore infinito, il tango. Ma questi sono pezzi di cuore, parti di me, come una gamba o un occhio.

Un giorno ci colpisce la pandemia e il mondo si ferma, l’umanità intera entra dentro l’incubo, restiamo chiusi in casa, non possiamo più toccarci, baciarci, stare insieme. Cadiamo come birilli dentro noi stessi, facendo uno strike con tutti i nostri fantasmi che ci accolgono, terrorizzandoci.

Ci scopriamo fragili, spesso senza un senso, senza una direzione nella nostra vita. Ci limitiamo a dare tutto di noi stessi in una corsa verso il vuoto, davanti alla linea di un orizzonte che non abbiamo disegnato con i nostri pensieri e meno che meno con i nostri sogni.

In tanti siamo ancora così, completi incravattati che si agitano nel mondo delle abitudini, manichini svuotati e sempre più grigi, soli e tristi. Litighiamo per nulla, ogni motivo ci spinge ad odiarci gli uni contro gli altri perchè, nel profondo, odiamo noi stessi.

Siamo stati costretti a fermarci per due anni, in questa pausa non abbiamo potuto scappare, nasconderci. Eravamo lì, di fronte a noi stessi, ma non ci conoscevamo. Incontrare se stessi per la prima volta, a qualunque età ciò avvenga, è un’esperienza molto forte, anche difficile da reggere, ma necessaria.

Sono una sopravvissuta. Ho grattato tutte le superfici che ho scoperto, mi sono spaventata dal buio di certe stanze, dal calore emanato da taluni ricordi, ma non sono più scappata.

Natale arriva tra pochi giorni ma a me il regalo lo ha già portato, da qualche tempo. Ho ritrovato le mie compagne del liceo che pure loro ne hanno passate tante di vicissitudini, tante. Ci siamo ritrovate unite da un filo, di cotone prima, di lana adesso. Il Circolo Creativo si riunisce con una certa assiduità ma senza rigide regole, così come la situazione impone. Oltre all’incontro, sempre estremamente nutriente, con le donne che sono diventate, ho trovato – finalmente – il mio hobby, quello che per una vita ho cercato invano.

Mi piace usare l’uncinetto, che mi sembra di tenere in mano una penna, mi piace percepire il filo che scorre tra le dita, adoro i colori che mi passano sotto lo sguardo e la materia che piano piano prende forma. La mente entra in meditazione, uno stato di estremo relax che non è lassità come quando si galleggia inerti sul divano, è un relax attivo, la mente è vigile ma “vuota” da tutti i pensieri, le ansie, i turbamenti che la sporcano.

Mentre metto mano al mio lavoro passo il tempo in perfetta solitudine, quella che fino a poco tempo fa mi faceva così tanta paura e mi rendeva triste, adesso è mia amica, una cara e preziosa amica. La solitudine ascolta il mio cuore, risveglia i ricordi, mette in fila i pensieri, crea l’ordine in modo naturale dove prima c’era solo il caos.

Se state leggendo questo post e siete tra coloro che affermano di provare brutte sensazioni in questo tempo recente, se vi sentite irrequieti, tristi, provate, provate a cercare il vostro hobby, vi garantisco che è una potentissima terapia dell’anima.

Pimpra

Ps a Trieste i filati si comprano da Culot in via delle Torri, 2. Oltre alle lane e co. i consigli, le indicazioni della Roberta sono in assoluto il valore aggiunto.

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Manco da questo schermo da parecchio, non che sia un male, per carità, ma non posso fare a meno di tornarci, di tanto in tanto.

La metà di novembre è oramai già alle porte, siamo dentro l’autunno profondo che porta con sè colori stupendi e i primi freddi. Tutto sta nel farselo piacere, come ogni mutamento, necessario, che la vita ci propone.

La normalità sembra nuovamente lontana, almeno a casa mia, Trieste, diventata vessillo di protesta e focolaio di numerosi contagi. Capoluogo spaccato a metà, diviso tra il pensiero illuminista di città della scienza e il moto libertario degli oppositori.

La frattura sta creando un maremoto di scontento e di aggressività a tutti i livelli, legami che si spezzano, coltelli che volano e parole taglienti che piovono da ogni dove.

A questa energia potenzialmente deflagrante, aggiungiamo un nuovo picco che la sanità locale sta vivendo a causa dell’impennata di contagi, specie a Trieste.

Da qualche giorno spira la bora. E’ arrivata finalmente e con lei quel cielo azzurro invernale saturo di una luce argentea. Faccio fatica a sentire il suo canto, a volte urlato altre sussurrato in gemiti lievi. Il malcontento delle persone copre la melodia frusciante delle foglie in caduta libera, difficile accorgersi degli uccelli che organizzano i loro nidi invernali.

Anche quest’autunno è fuori dalla normalità del prima. Non siamo riusciti a sconfiggere il virus burlone che ci illude di una vittoria e poi torna più fastidioso che mai.

Anche il tango ne risente, di nuovo. Oltreconfine un festival annunciato mesi addietro è stato revocato a causa della situazione molto pesante di contagi. La quarta ondata, dicono.

Come molti di voi, oramai non ascolto più, notizie nefaste entrano da un lato ed escono a velocità subsonica, dall’altro. Sono stanca dei dibattiti che tirano la copertina e ti lasciano scoperti i piedi o il busto, ognuno a lottare per l’idea che si è fatto della situazione.

Basta, non ne posso più.

Nel mentre questo film surreale mi scorre accanto, pedalo nel vento, respiro, sento male ai muscoli delle gambe, mi compiaccio del cuore che pulsa più veloce.

E continuo a godere della Vita, ad apprezzarne ogni piccola sfumatura, a svegliarmi sorridente al mattino. A fanculo il resto.

Pimpra

IMAGE CREDIT: DRAZEN NESIC

TANGO E PSICHE POST COVID

Prima o poi, a dio e al governo piacendo, torneremo in pista. A dire il vero, molti di noi già ci sono tornati: i più gagliardi andando a ballare all’estero, dove era consentito farlo, alcuni nostrani potendo dedicarsi alle pratiche con partner fisso (… ma davvero avete ballato solo con il vostro partner..? ) e poi tutti quelli come me che stanno ancora aspettando l’apertura “ufficiale”.

Dopo questi due anni di delirio, mi chiedo, rimetteremo piede in pista come se nulla fosse accaduto o, qualcosa, dentro di noi, è cambiato?

Ne parlavo con alcune amiche, alcuni giorni addietro. Meditavamo sulla possibilità di andare a un Festival molto famoso che viene organizzato nella vicina Slovenia. Tappa fissa del peregrinare tanguero autunnale, divertimento assicurato, un gran bel festival. Inutile dire che alla sola idea, fiotti di acquolina tanguera inumidiscono la nostra bocca rimasta asciutta di tandas per troppo tempo, eppure…

Le regole sono chiare: certificato vaccinale, tampone, lo stesso schema preventivo e di controllo utilizzato da altri paesi europei, Svizzera in primis.

Abbiamo tutte concordato che è il solo modo, per il momento, per affrontare la pista ma, dopo pochi istanti, ad ognuna è venuto un rigurgito di ansia. “Ma chi abbraccerò? E se si è contagiato e non lo sa? E se mi attacca qualcosa? E se… ?”

La riflessione di oggi è questa: la prima milonga post pandemica, come ci troverà da un punto di vista psicologico? Di sicuro non uguali a prima.

Le persone che hanno vissuto questi due anni di clausura attenendosi ai precetti: niente vicinanza, niente abbracci, niente di niente, pure se vaccinate o guarite dal Covid, quale tipo di emozioni dovranno gestire la loro prima volta?

La fiducia, elemento imprescindibile dell’abbraccio tanguero, avrà la stessa potenza, la stessa intensità di sempre?

Saremo ancora capaci di abbracciarci realmente, senza schermi, senza limiti, mettendo tutto ciò che siamo dentro quell’abbraccio?

Me lo chiedo, perché, al momento, ancora non l’ho sperimentato.

La voglia c’è, ed è potente, quasi un’urgenza dell’anima, ma esiste anche quella fastidiosa sensazione di timore che crea un’emozione stonata, incompatibile con la bellezza del tango.

Non resta che saltare il fosso e, come tutte le prime volte, gestire l’emozione, lasciare andare via l’ansia e godersi l’esperienza!

BUONI – RITROVATI – ABBRACCI A TUTTI !

Pimpra

IL VIRUS E LA SALA DA BALLO. UN FALSO PROBLEMA.

Ho perso il conto, oramai, dei giorni che sono trascorsi dall’ultimo abbraccio dato in milonga, non lo so più, ho rimosso.

Sono stata “brava”, anzi “bravissima”, ho rispettato tutte le regole, mi sono astenuta, mi sono vaccinata (pur con tutti i dubbi, le perplessità, le paure), ho ottenuto il green pass, continuo a fare vita morigerata (fin troppo, una ottantenne probabilmente va al caffè con le amiche più di me), tutto per essere pronta al giorno in cui – FINALMENTE- pur con la necessaria prudenza, avrei rimesso piede in pista.

UN GIGANTESCO STICAZZI.

Ottobre del 2 anno di pandemia, contagi in calo, 75% della popolazione italiana vaccinata, mi aspetto di poter riprendere a ballare, così come stanno facendo in tutta Europa dall’estate, se non da prima.

In Svizzera, ad esempio, ballano da tempo: va esibito il certificato Covid (equivalente del nostro green pass) ovvero bisogna essere vaccinati con due dosi, guariti o avere un test negativo. Mi sembra così semplice, logico, funzionale, Svizzero! 🙂

In Italia tutta la popolazione della danza, del ballo sociale, del ballo di gruppo (discoteca) e di tutte le realtà che mettono il corpo e la musica al centro, restano fuori dai ragionamenti ministeriali, dall’attenzione del governo.

Fino a qui sono stata molto brava e super ligia però… come è possibile vedere alla televisione mega assembramenti in situazioni calcistiche (per dire) se pure all’aperto, ma in un vero e proprio assembramento, e poi vedersi negata la possibilità di un sano divertimento, pur applicando, come in Svizzera, un serio monitoraggio?

Mesi fa ho urlato la mia assoluta contrarietà a tutti gli eventi “carbonari” che persone che allora mi parevano senza scrupoli, continuavano ad organizzare. Oggi i tempi sono diversi, l’ora della quasi normalità è giunta, altrimenti, in questo ed in altri settori, fioriranno infiniti eventi, incontri, feste, milonghe, assolutamente clandestini, senza alcun tipo di controllo, potenzialmente pericolosi. Potenzialmente, lo ribadisco, poiché mi pare che i vaccinati, i guariti, o i tamponati con frequenza, oramai sono quasi la maggiornanza.

Da utente di una sala da ballo sono molto imbestialita di questa totale mancanza di considerazione, e capisco molto bene i veri professionisti che, una volta ancora, vedono il loro sacrosanto diritto di lavorare (art. 1 della nostra Costituzione) calpestato, offeso, ridicolizzato.

Pimpra

ETICA MINIMA

Il titolo del post rimanda al testo del filosofo, scrittore Pier Aldo Rovatti , che vi invito a leggere. Il seguito, nulla ha a che vedere con il suo scritto.

Da molto non affronto più le tematiche legate alla pandemia e a tutte le implicazioni sociali e relazionali che ne sono scaturite. Oggi però ho deciso di rompere il silenzio, ponendomi una domanda:

per un professionista del mondo sanitario, dal gradino più piccolo della scala a quello più alto, come è possibile rifiutarsi di fare il vaccino? E’ come dichiarare la propria perplessità nei confronti della scienza, della ricerca.

Personalmente delle domande me le porrei, se fossi un sanitario: perché ho scelto la professione?

I provvedimenti che cominciano ad essere presi verso il personale sanitario che si dichiara contrario al vaccino, mi trovano assolutamente d’accordo. Non è conciliabile rivestire un ruolo professionale in sanità ed essere allo stesso tempo detrattori della ricerca che sta alla base di qualunque terapia.

Mi viene in mente un episodio che mi capitò tanti anni or sono: mi recai al consultorio per la prescrizione di un anticoncezionale adatto alle mie esigenze. Ebbene incappai in un medico obiettore di coscienza che, in tutti i modi e con la persuasione più becera, tentò di spingermi a fare un figlio al più presto, perché con il mio profilo ormonale, potevo essere a rischio sterilità e che lui giammai mi avrebbe prescritto la pillola.

All’epoca ero una giovane donna di 20 anni, frequentavo l’università e, all’uscita dal consultorio provai solo una grandissima rabbia per il ginecologo ma non lo segnalai all’autorità competente. La segnalazione, a mio parere, era dovuta, poiché se una donna, per una serie di ragioni personali, ritiene di voler e dover provvedere alla contraccezione (e non parlo di aborto) il medico ha il sacrosanto DOVERE di consigliare/suggerire il metodo più adatto. Punto.

Immaginiamo se al posto mio, allora, ci fosse stata una ragazza senza gli strumenti culturali/economici (poi feci la visita privata ed ottenni iò che mi serviva – senza alcun nefasto effetto collaterale, tra l’altro), che avrebbe fatto? Sarebbe rimasta incinta senza un lavoro, senza alcuna prospettiva? Solo perché un medico le aveva suggerito di “provvedere quanto prima a fare un figlio”?

Con i vaccini, mi sembra la stessa cosa: il personale sanitario, senza battere ciglio, dovrebbe vaccinarsi e promuovere la vaccinazione presso la cittadinanza, così come i responsabili cittadini, compatibilmente alle condizioni di salute, dovrebbero vaccinarsi. Non c’è spazio a credo personali.

Punto.

Ci sono situazioni in cui, quella sbandierata libertà di cui tanto ci riempiamo la bocca, è solo un vessillo per nasconderci dietro a forme di meschinità prive di qualsiasi visione globale.

Etica sociale, in cui il comportamento di ognuno possa essere anche votato al bene della comunità, facendo dei sacrifici, se necessario, mettendo a disposizione del bene superiore, un particella della propria libertà personale.

Pimpra

LE AVVENTURE DELLA PIMPRA. Summer 2021

Un’estate che definisco strana. Sembra quasi tutto normale ma sappiamo bene che non lo è, una gran parte delle nostre vite precedenti sono e restano ancora come congelate.

Abbiamo imparato a convivere con strane regole, ci adattiamo a nuovi modi di vivere il nostro tempo libero in un regime che definirei di semi libertà.

In tutto questo la vita va avanti, come se nulla fosse.

Venerdì pomeriggio, palestra. Praticamente vuota, situazione ideale: i macchinari sono liberi, non ci sono fastidi, odori molesti, gente che intralcia. Penso che sono diventata una selvaggia asociale, ma tant’è.

Parto con la prima serie di esercizi, sto per iniziarne un’altra mentre lascio la postazione a un ragazzo che conosco di vista, frequenta anche lui lo stesso luogo, più o meno ai miei orari.

Per la prima volta mi saluta chiedendomi come va.

Tolgo le micro cuffiette e gentilmente rispondo “Tutto bene grazie, fino a quando potremo continuare a venire qui” aggiungo “bene anche tu mi sembra” .

“Sì infatti” risponde il giovane. Un volto dai lineamenti delicati, elegante nei modi, riservato, un bel fisico fresco, asciutto e armonicamente muscoloso. L’avevo notato nella massa dei giovinetti che pompano i muscoli, menando vanto dei pesi sollevati e delle incredibili performance tra le lenzuola. Lui mai, sempre in disparte, in silenzio ad allenarsi, come me.

Rimetto le cuffiette, faccio per recuperare il cellulare e, come per magia, non lo trovo più. Deve essere lì, era accanto a me durante l’esecuzione dei primi esercizi, non posso averlo messo altrove. Guardo, cerco e nulla, come fosse sparito.

Il giovane capisce che qualcosa non va e mi porge il suo cellulare, iphone di ultimissima generazione, dicendomi di chiamare il mio numero, cosa che faccio e, incredibile, il cellulare era esattamente alla base dei miei piedi. Lo vedo, rido, ringrazio per l’aiuto, rimetto le cuffiette e continuo l’allenamento.

Tra me e me penso a quanto sono accecata, decretando che, la prossima volta, mi tocca assolutamente mettere le lenti a contatto (che non sopporto).

Doccia, vestizione e scappo a casa. Nello spazio antistante agli spogliatoi, il giovane sta armeggiando con il cellulare, saluto con un ciao e mi avvio.

Girato l’angolo, già in sella allo scooter lo rivedo, mi avvicina e mi chiede dove abito. Resto basita ma, come un automa, rispondo. Poi mi chiede se sono libera.

“Cosaaaa?” mi esce una faccia a forma di pesce con occhi a palla. Ma che domande sono, non conosco neppure il suo nome! Rilancia immediatamente dicendomi che non parla bene l’italiano, me ne ero accorta, al che chiedo di dove fosse. Kossovo, risponde.

Nella mia immaginazione era uno dei tanti studenti che frequentano la palestra, oppure un giovane professionista, e niente, invece mi dice che ha una ditta di costruzioni. Traduco nella mia testa pensando che lavora in una ditta di costruzioni.

Rilancia immediatamente facendomi una domanda così diretta da arrivamrmi come una sassata in faccia “Posso venire a casa tua?”

EEEEEEEEH?????????!!!!!!!!!!!!

Trasalisco imbarazzatissima, non so se incavolarmi a morte o ridere. Istintivamente mi viene da ridere perché reputo la situazione assolutamente surreale.

“Certo che non puoi venire a casa mia, ciao eh”.

Accendo il motore e parto. Lui si avvia con le pive nel sacco.

Alla sera, mi chiama per 3 volte. Non solo ardito ma pure stalker. L’ho bloccato e via.

Estate 2021 modalità ON.

😀

Pimpra

IO SONO TEAM #PFITZER

Il mio V.Day è stato martedì. Ci sono arrivata con la mia cara amica, unite, ad affrontare una vaccinazione che, se non ci avessero costruito sopra un incredibile battage mediatico “contro”, sarebbe stato un (non) evento nella nostra vita, come un qualsiasi esame medico di routine.

Siamo arrivate al nostro centro vaccinale, in anticipo, nessuno in coda. Selfie scaramantico d’ordinanza prima di mettere piede dentro l’hub sorridiamo “Finché siamo vive”.

Organizzazione impeccabile, meccanismo oramai oliato da mesi di vaccini già inoculati.

Le scartoffie passano il primo controllo e pure al banchetto dove scopriremo quale tipologia di vaccino riceveremo: tutto ok.

Io sto nella squadra Pfizer (quindi vaccino su base RNA), la mia amica team Janssen (vaccino a vettore virale non replicante).

Siamo su due distinte file e, mentre aspettiamo il nostro turno, mi sento parte di una cosa grandiosa, epocale.

“Ti rendi conto che stiamo vivendo un momento straordinario della storia dell’umanità? Una vaccinazione di massa a livello planetario, ha dell’incredibile”, la mia amica replica con un pragmaticissimo “Ne avrei fatto volentieri a meno”, e come non darle ragione.

Vengo indirizzata al mio gabbiottino, dove un giovanissimo medico (credo) e un’altrettanto giovane infermiera o medico, mi intrattengono con battute ironiche “Vedrà come prederà bene il 5 G una volta a casa”, ridiamo e manco mi accorgo che la punturina era già fatta. Mi complimento per la mano piumata e procedo nella sala di decompressione, quella in cui, trascorsi 15′ e sei ancora vivo, puoi tornare a casa tranquillo.

Sentendomi bene, volevo uscire dopo i primi 5′ ma, la mia amica “Nonsisamai”, ha preferito attenersi scrupolosamente alla regola.

Una volta fuori, abbiamo festeggiato il salto del fosso, godendoci un aperitivo all’aperto.

Alla sera, un sacco di amici a chiedere come stavamo, se tutto era ok e, per nostra fortuna, tutto è andato nel migliore dei modi.

Il mio secondo appuntamento per concludere la profilassi, di qui a fine mese, dopodiché un foglio mi permetterà di andarmene tranquilla in giro per il mondo.

Come molti, ho avuto infinite perplessità, mi sono molto spaventata alle notizie dei media di persone che morivano dopo il vaccino, anche su di me il tam tam mediatico per un certo periodo ha fatto presa sulle emozioni.

Poi, mi sono detta: io credo nella scienza e, messi sulla bilancia i costi/benefici, ho ritenuto che i secondi fossero di gran lunga superiori.

Il rischio c’è, per ogni cosa. Ho scelto di rischiare per godermi una libertà di movimento alla quale non sono più disposta a rinunciare. Vaccinarsi per creare quella copertura di immunità di gregge è anche un dovere civico e, francamente, non mi sembra corretto aver messo “a rischio” gli anziani (vaccinati per primi) e poi tirarmi indietro proprio io.

Penso che a ciclo di vaccino concluso, potrò ribaciare e abbracciare mia mamma senza particolari patemi d’animo, così come godermi il mondo in tutta la sua meraviglia.

Agli indecisi dico: trovate la vostra personale motivazione per farla questa punturina e andate avanti convinti.

Pimpra

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VADO A RIPRENDERMI LA GIAGUARA

Ricordo perfettamente la prima milonga a cui partecipai tantissimi anni or sono, la luce tenue della sala, illuminata, ai miei occhi, esclusivamente dallo scintillio dei tacchi a spillo delle ballerine.

Fu colpo di fulmine, amore a prima vista, estasi totale.

I piedi delle tangueras disegnavano merletti sul pavimento della sala, inondando i miei occhi di grazia e sensualità.

Immediata dentro di me la spinta a diventare anche io portatrice di quella leggiadria felina capace di raccontare, senza parole, quale donna fossi. La donna che ho scoperto per la prima volta indossando proprio quelle scarpe a stiletto con cui danzare.

Il tango non parte dai piedi, non basta scimmiottare grazia e adornos con le estremità, è un movimento che trova la sua radice al “piso” da cui prende energia e la convoglia nel corpo verso l’alto e poi torna alla terra. Una simbiosi armoniosa che produce linee e movimenti fluidi.

Per una ballerina, di qualsiasi danza, lo stop del corpo è il primo dramma esistenziale: viene meno la confidenza, la sensibilità, l’equilibrio… come il collasso di una struttura lungamente costruita, solidificata, lavorata, resa flessuosa.

Una danzatrice non si deve fermare mai, come un musicista.

La pandemia, su di me, ha avuto un effetto devastante, nel senso che ha congelato, in tutto e per tutto, il mio essere: “ho smesso di …” allenarmi, ballare, fare sport, essere donna, sentire la vita scorrermi sulla pelle.

Congelata. Mai provato una simile sensazione in tutta la mia vita.

La primavera arriva, sempre, e la notte cede il passo al giorno nascente ed eccomi qui, ammaccata, con lo sguardo ingrigito ma finalmente pronta a VIVERE come piace a me, con il sangue che scorre caldo nelle vene e lo sguardo che punta all’orizzonte.

Ed è tornato anche l’amore più grande, gatti a parte, quel tango che avevo congelato dentro l’iceberg insieme a me.

Adesso è tempo di lavorare sulla tecnica, sul corpo che deve ritrovare il suo assetto, la sensibilità, il piacere del movimento di cui ha contezza, l’equilibrio leggiadro sui tacchi.

E poi c’è lei, una persona speciale, una Maestra che a lezione dona tutta la sua passione, senza tenere nulla per sé, la “Giaguara assoluta”, colei che basta guardarla camminare e pensi “La voglio anche io la sua stessa falcata, quel tocco felino al pavimento, quell’eleganza di gatta e di Jaguar insieme”.

Il tango è tornato, la donna si sta risvegliando e, con i giusti appoggi (grazie Maestra!), indossare quotidianamente i tacchi torna ad essere un piacere.

Questo post è dedicato ad E., già la immagino schernirsi dall’imbarazzo.

Pimpra

IMAGE CREDIT: Marco Piemonte

Tango Shoes: modello Pigalle di Regina Tango Shoes

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