ONLYFANS. PRENDERE O LASCIARE?

Alla sera, mentre allestisco il desco felino e umano, mi diletto ad ascoltare “La Zanzara” di Cruciani e Parenzo. La deriva erotosessuale della trasmissione radiofonica, racconta sicuramente uno spaccato sociale che, volenti o nolenti, non possiamo fingere non esista.

Personalmente ritengo la sessualità di ognuno uno dei campi di maggiore espressione della libertà soggettiva nel senso che – fatta la premessa dell'”accordo tra le parti”- tra le lenzuola ognuno è padrone di viversi la cosa come meglio lo aggrada.

I tempi moderni, però, hanno portato una ventata incredibile di nuove possibilità. Se torno con la mente agli anni 80, la “formazione” dei giovani attraverso cosa avveniva? Esperienza reale, confronto con i coetanei, “giornaletti”, filmetti, credo nulla più.

Il massivo ingresso nelle nostre vite della rete ha esploso di possibilità il reperimento e lo scambio di sessualità.

Da adulta non mi pare ci sia nulla di male, non fosse che – forse- manca una certa cultura di base e un certo discernimento di fondo, ma non voglio di certo fare la bacchettona.

Arriviamo all’oggi, sono rimasta incuriosita dal fenomeno di Onlyfans, sito sul quale, ciascheduno di noi, può offrire al mercato globale una quota parte o l’intero di se stesso, declinandolo nelle mille mila sfumature che la sessualità e l’erotismo consentono, guadagnando, pare, cifre considerevoli.

La Zanzara, nelle interviste che propone quotidianamente, riferisce di giovani che sono entrati in questo mercato traendone immense soddisfazioni economiche.

Riesce incredibile pensare che esistano nel mondo persone interessate all’acquisto di contenuti virtuali di ogni sorta, ascoltate la trasmissione per farvene un’idea.

Il dibattito si accende tra i “liberali” e i “conservatori”, tra chi depreca l’uso del corpo a fini commerciali, chi – al contrario- non ci vede nulla di male.

Se fossi un genitore, e meno male che non lo sono, immaginare i miei figli impegnati a fare soldi su un sito del genere, mi creerebbe non poche perplessità, lo confesso. Ma, dal momento che non amo chiudere la mente, immagino che anche questa, possa divenire una “professione”.

Se proprio una persona sente delle pulsioni che la portano ad avvicinarsi a tale mondo, immagino che sia decisamente meglio diventare i manager di se stessi piuttosto che dipendere da altri, con le terribili conseguenze del caso. A sentire gli intervistati, avere un proprio profilo sul sito, li impegna a costruirsi anche un “piano editoriale”, a monitorare l’andamento del mercato di genere, insomma ad essere totalmente proattivi in questa attività.

In fondo, penso, che male c’è? Come tutte le leggi di mercato dove c’è forte richiesta, nasce l’offerta.

Ci stiamo perdendo qualcosa? Difficile dare una risposta che non poggi esageratamente sulle nostre tradizioni, sulla nostra morale, difficile essere imparziali il giusto per esprimere una riflessione equilibrata.

La sola cosa che mi perplime è la ricerca di strade “facili”. Penso a coloro che investono risorse e tempo sui social cercando di farne una professione (diventare “influencer”), senza prima munirsi degli strumenti culturali necessari e non mi rieferisco unicamente a Onlyfans.

La forbice tra le generazioni si evince particolarmente in questo: prima dei millenials si era costretti al lavoro (o intellettuale o fisico) e al sacrificio nella costruzione di una propria identità professionale anche perchè non esistevano queste possibilità alternative.

Ad oggi mi chiedo se siamo noi “anziani” ad avere perso delle occasioni per esprimere e realizzare al meglio noi stessi, oppure sono i giovani che, proiettati molto pesantemente in un mondo estremamente virtuale e non sempre virtuoso, bypassano certe esperienze importanti per la loro evoluzione personale.

In medio stat virtus, la mia risposta.

Pimpra

Un martedì senza empatia, non è mai una buona giornata.

Nella società moderna, così fluida, veloce ed effimera, sono sempre più carenti alcuni tratti fondamentali del vivere collettivo, tra questi cito l’empatia.

EMPATIA= dal greco En, dentro; PATHOS, sentimento.

Stamattina ho accompagnato l’anziana madre a un controllo medico per validare la terapia che sta seguendo da un mese e che le procura qualche fastidio.

Si trattava di una visita “al buio”, nel senso che il medico non sapevamo chi fosse, solo la specialità: neurologo.

La madre, come moltissimi altri pazienti triestini e non, ha perso quel faro di umanità, competenza, disponibilità che era la compianta prof.ssa Rita Moretti e, come molti altri, stiamo cercando di capire come proseguire l’opera iniziata dalla dott.ssa tristemente e improvvisamente deceduta.

Mia madre,

Mia madre, ça va sans dire, non si è occupata del “post Moretti”, non essendo capace di farlo, non fosse per l’età avanzata, sicchè sono stata io a mettermi al telefono per trovare il filo iniziale dell’intricata matassa.

Le telefonate si sono susseguite in una serie di scivolamenti verso il non detto, alla mia domanda “Ma la dott.ssa aveva dei collaborator* fidati?” , nessuno che si fosse sbottonato, la mia non era una richiesta perentoria, solo la ricerca di un suggerimento, un consiglio: “Mettetevi nei miei panni, a chi chiedereste per vostra madre?”. Niente, tutti, dagli infermieri di reparto ai segretari del primario della clinica ospedaliera, abbotonatissimi. Mi suggeriscono di chiedere una visita, cosa che faccio ed eccoci.

Ci accoglie un medico donna, dall’aspetto gentile, il seno florido che rimanda immediatamente alla “madre” archetipale, mi sembra bene. Parte la domanda a bruciapelo a mia madre “Lei perchè è qui?” e lei, ansiosa di prima generazione, perde l’uso della parola e diventa tutta rossa, fin sotto alla mascherina. Faccio per rispondere io, per aiutarla, e perchè la visita di controllo e verifica terapia era un’idea mia ma il medico mi blocca con fare severo.

La madre, sempre più rossa, comincia a biascicare qualcosa, facendo vieppiù innervosire il medico. Al che mi intrometto e spiego la ratio della visita.

Rimprovero n. 2: non dovevamo andare lì, che il farmaco da controllare lo dispensano solo centri specializzati particolari che hanno un registo e che lei non poteva fare nulla.

Mia mamma tramortita. Io, piuttosto imbizzarrita, avrei voluto rispondere per le rime, assecondando il movimento delle mie emozioni, ma sono stata saggia e, invece di inveire contro un simile trattamento, mi sono scusata dicendo che, per chi sta – come noi – dall’altra parte della scrivania, non è affatto scontato trovare i percorsi scorretti perchè non è il nostro mestiere.

La dott.ssa dalle grandissime tette, evidentemente mossa a compassione, depone un poco le armi e afferma che la visita l’avrebbe fatta comunque. Ed è stato così, e pure senza fretta.

I test verbali somministrati a mia madre dalla dottoressa dal corpo accogliente ma dalla parola tagliente, hanno vieppiù accresciuto lo stato di stress, specie alla domanda “Quanto fa 100-7?”: panico, mia mamma paonazza, in difficoltà come un uccellino caduto dal nido, alza la voce e quasi urla “Non lo so!”.

Ero a disagio per lei, perchè i numeri ci sono sempre stati osptili, ma un conto è cercare di gestirli in stato di tranquillità, altro è con lo stress da interrogazione.

Concluso il test verbale e fisico, la neurologa ha stilato un’approfondita anamnesi e ci ha indirizzato nel posto giusto. Amen.

Però così non si fa.

All’uscita la madre era ancora stremata dalla prova, in imbarazzo per la brutta figura (soffre di un serio disturbo della memoria), incavolata per essere stata trattata con “severità”.

Capite quanto sia importante nella vita, specie nelle relazioni, entrare in “vibrazione” con l’altro, percepirne lo stato d’animo, specie se si esercitano professioni che entrano prepotentemente a contatto con le emozioni, i sentimenti dell’altro?

Di sicuro il rispetto dei ruoli, va portato in entrambe le direzioni, non possiamo pretendere empatia se, noi per primi, non la offriamo.

All’uscita dall’ospedale l’ho presa sottobraccio rassicurandola, dai mamma adesso abbiamo capito da chi andare e lei, con gli occhi umidi di commozione, ha risposto “Mi manca la mia Rita, le volevo davvero bene”.

Questo è il lascito che dovremmo essere capaci di scrivere nelle persone che ci hanno conosciuto, indipendentemente da chi siamo, cosa facciamo, solo perchè siamo essere umani evoluti.

Mica facile…

Pimpra

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Manco da questo schermo da parecchio, non che sia un male, per carità, ma non posso fare a meno di tornarci, di tanto in tanto.

La metà di novembre è oramai già alle porte, siamo dentro l’autunno profondo che porta con sè colori stupendi e i primi freddi. Tutto sta nel farselo piacere, come ogni mutamento, necessario, che la vita ci propone.

La normalità sembra nuovamente lontana, almeno a casa mia, Trieste, diventata vessillo di protesta e focolaio di numerosi contagi. Capoluogo spaccato a metà, diviso tra il pensiero illuminista di città della scienza e il moto libertario degli oppositori.

La frattura sta creando un maremoto di scontento e di aggressività a tutti i livelli, legami che si spezzano, coltelli che volano e parole taglienti che piovono da ogni dove.

A questa energia potenzialmente deflagrante, aggiungiamo un nuovo picco che la sanità locale sta vivendo a causa dell’impennata di contagi, specie a Trieste.

Da qualche giorno spira la bora. E’ arrivata finalmente e con lei quel cielo azzurro invernale saturo di una luce argentea. Faccio fatica a sentire il suo canto, a volte urlato altre sussurrato in gemiti lievi. Il malcontento delle persone copre la melodia frusciante delle foglie in caduta libera, difficile accorgersi degli uccelli che organizzano i loro nidi invernali.

Anche quest’autunno è fuori dalla normalità del prima. Non siamo riusciti a sconfiggere il virus burlone che ci illude di una vittoria e poi torna più fastidioso che mai.

Anche il tango ne risente, di nuovo. Oltreconfine un festival annunciato mesi addietro è stato revocato a causa della situazione molto pesante di contagi. La quarta ondata, dicono.

Come molti di voi, oramai non ascolto più, notizie nefaste entrano da un lato ed escono a velocità subsonica, dall’altro. Sono stanca dei dibattiti che tirano la copertina e ti lasciano scoperti i piedi o il busto, ognuno a lottare per l’idea che si è fatto della situazione.

Basta, non ne posso più.

Nel mentre questo film surreale mi scorre accanto, pedalo nel vento, respiro, sento male ai muscoli delle gambe, mi compiaccio del cuore che pulsa più veloce.

E continuo a godere della Vita, ad apprezzarne ogni piccola sfumatura, a svegliarmi sorridente al mattino. A fanculo il resto.

Pimpra

IMAGE CREDIT: DRAZEN NESIC

ETICA MINIMA

Il titolo del post rimanda al testo del filosofo, scrittore Pier Aldo Rovatti , che vi invito a leggere. Il seguito, nulla ha a che vedere con il suo scritto.

Da molto non affronto più le tematiche legate alla pandemia e a tutte le implicazioni sociali e relazionali che ne sono scaturite. Oggi però ho deciso di rompere il silenzio, ponendomi una domanda:

per un professionista del mondo sanitario, dal gradino più piccolo della scala a quello più alto, come è possibile rifiutarsi di fare il vaccino? E’ come dichiarare la propria perplessità nei confronti della scienza, della ricerca.

Personalmente delle domande me le porrei, se fossi un sanitario: perché ho scelto la professione?

I provvedimenti che cominciano ad essere presi verso il personale sanitario che si dichiara contrario al vaccino, mi trovano assolutamente d’accordo. Non è conciliabile rivestire un ruolo professionale in sanità ed essere allo stesso tempo detrattori della ricerca che sta alla base di qualunque terapia.

Mi viene in mente un episodio che mi capitò tanti anni or sono: mi recai al consultorio per la prescrizione di un anticoncezionale adatto alle mie esigenze. Ebbene incappai in un medico obiettore di coscienza che, in tutti i modi e con la persuasione più becera, tentò di spingermi a fare un figlio al più presto, perché con il mio profilo ormonale, potevo essere a rischio sterilità e che lui giammai mi avrebbe prescritto la pillola.

All’epoca ero una giovane donna di 20 anni, frequentavo l’università e, all’uscita dal consultorio provai solo una grandissima rabbia per il ginecologo ma non lo segnalai all’autorità competente. La segnalazione, a mio parere, era dovuta, poiché se una donna, per una serie di ragioni personali, ritiene di voler e dover provvedere alla contraccezione (e non parlo di aborto) il medico ha il sacrosanto DOVERE di consigliare/suggerire il metodo più adatto. Punto.

Immaginiamo se al posto mio, allora, ci fosse stata una ragazza senza gli strumenti culturali/economici (poi feci la visita privata ed ottenni iò che mi serviva – senza alcun nefasto effetto collaterale, tra l’altro), che avrebbe fatto? Sarebbe rimasta incinta senza un lavoro, senza alcuna prospettiva? Solo perché un medico le aveva suggerito di “provvedere quanto prima a fare un figlio”?

Con i vaccini, mi sembra la stessa cosa: il personale sanitario, senza battere ciglio, dovrebbe vaccinarsi e promuovere la vaccinazione presso la cittadinanza, così come i responsabili cittadini, compatibilmente alle condizioni di salute, dovrebbero vaccinarsi. Non c’è spazio a credo personali.

Punto.

Ci sono situazioni in cui, quella sbandierata libertà di cui tanto ci riempiamo la bocca, è solo un vessillo per nasconderci dietro a forme di meschinità prive di qualsiasi visione globale.

Etica sociale, in cui il comportamento di ognuno possa essere anche votato al bene della comunità, facendo dei sacrifici, se necessario, mettendo a disposizione del bene superiore, un particella della propria libertà personale.

Pimpra

LA SUPER EMPATIA

C’era un tempo in cui una persona a me vicina mi definiva “La signora Alberti” appellativo conquistato sul campo a forza di “consulenze del cuore” offerte a piene mani ad amici e conoscenti.

E’ così da quando sono poco più di una bimbetta che alcune persone, mosse da non so quale ragione, mi venissero vicino a chiedere consigli.

E’ molto facile, per me, mettermi nei loro panni, ascoltarli, ragionare insieme sulla situazione e darne la mia personale interpretazione. Giusta o sbagliata che sia, ha sortito sempre un positivo effetto sulla persona perché, almeno, si sente ascoltata.

La mia passione per l’animo umano doveva – probabilmente- diventare la mia professione, ma altre strade hanno preso il sopravvento, e tant’è.

Ciò detto, ho riscontrato incredibili e profonde ferite esistenziali, in quella categoria di persone che possiedono un dono preziosissimo: la super empatia.

Da Treccani

Empatia

In psicologia per empatia (termine derivato dal greco ἐν, “in”, e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, “soffro”, sul calco del tedesco Einfühlung), si intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale. Il termine viene anche usato per indicare quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

Voi capite che questa capacità di comprendere va assolutamente gestita, poiché, trattandosi di un’energia psichica potentissima, come una macchina sportiva, bisogna saperla guidare.

Uno dei rischi più grandi che corre l’empatico (per non parlare del super empatico, colu* che è così sensibile e in connessione da anticipare desideri, sensazioni dell’altra persona), è di perdere completamente la capacità di percepire/analizzare i dati oggettivi, i comportamenti reali, la situazione che condivide con l’altro.

Di solito sono queste persone così dotate che si mettono a completa disposizione, ascolto, supporto, sostegno… dell’altro perdendo completamente di vista se stessi, i loro desideri, la loro vita, divenendo, molto spesso, bersaglio prediletto di coloro che- assolutamente privi di empatia, ne fanno fonte primaria di approvvigionamento, in tutti i sensi che vi vengono in mente.

L’empatico, diciamocelo, se non è ben strutturato, è il primo dei fragili, di quelli che vengono manipolati e manco se ne accorgono, tanto il loro cuore è buono e pure fesso diciamocelo.

Di contro, bisogna dire che l’empatia non si insegna, è la capacità di entrare in vibrazione con altri esseri viventi, animali, piante, in modo così forte da riuscire a creare relazioni, legami.

Faccio parte pure io della squadra dei super empatici.

Fino ad ora, lo ammetto senza reticenze, ho avuto molti riscontri “di cuore” che mi hanno regalato un profondo senso di gioia, ma, molte più ferite e dolori inferti da quelle persone che l’empatia non sanno manco come si scrive.

La cura l’ho trovata, e mi ricollego a quanto ho scritto poco sopra: l’empatia è una macchina da corsa, potentissima, bisogna saperla guidare o ci si schianta.

Come si impara? Innanzitutto convergendo quelle potentissime antenne vibrazionali all’interno di noi stessi, non verso il mondo, come sempre facciamo, andando a scoprire chi realmente siamo, cosa nascondiamo, quali sono le NOSTRE ferite che non ci diamo mai il tempo di curare.

Fatta la connessione tra l’io e il me, bisogna STUDIARE, approfondire, andare alla ricerca di quel senso profondo di cui percepiamo la nota sonora ma facciamo fatica a cogliere l’intera melodia.

Quando l’orchestra che siamo comincerà a suonare e noi ad ascoltarla, sarà il giorno in cui la nostra empatia, non solo aiuterà chi ci verrà vicino, ma non permetterà a nessun* di usarla contro di noi.

Pimpra

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LA CAMPAGNA VACCINI IN FVG. ASPETTI DI CRITICITA’

Premetto che, a criticare il lavoro o il metodo di lavoro degli altri, sono bravi tutti e non voglio di sicuro cadere nella trappola di coloro che puntano il dito.

Provo ad esporre i fatti di un’esperienza personale che mi fa riflettere.

Campagna vaccini, terza fase, fascia 75-79 e persone ad alta fragilità. Nella mia famiglia, a tutela delle due nonne, organizziamo una squadra per far sì che loro non debbano andare a fare code per prenotare l’appuntamento. Mia cognata prova con il CUP telefonico e, nel caso sia impossibile prendere la linea, sono pronta a presidiare la farmacia, prima dell’orario di apertura, per essere certa di riuscire nell’impresa.

Studio la strategia: meglio una farmacia centrale o periferica e scelgo quella periferica. Sono la 5 in fila alle ore 8.10 del mattino, in coda, prima di me, le persone destinatarie del vaccino, ovvero over 75. Arriva ben presto un signore con stampelle e, siamo oramai in 15, decidiamo all’unanimità di farlo entrare per primo.

Premetto che, alle 8.05 mia cognata mi chiama e mi dà la ferale notizia: il CUP che è riuscita a contattare dopo 140 chiamate senza esito (mi ha mandato lo screen shot del cellulare!) le ha risposto che la campagna su Trieste ancora non è aperta, di riprovare il giorno successivo.

Sono sincera, dalla mia bocca sono uscite parole indegne per una signora. Decidiamo che vado comunque in farmacia che non si sa mai.

Al mio arrivo, comunico alle persone prima di me, quanto scoperto tramite CUP e loro mi rispondono che le farmaciste avevano appena confermato la partenza delle prenotazioni sulla città. Mi metto il cuore in pace, non senza pensare che il CUP deve essere una FONTE SICURA di informazioni corrette, precise, aggiornate. Non è così.

Al mio turno dinnanzi alla gentile farmacista, mi viene chiesta la tessera sanitaria delle due vaccinande che io non ho con me, poiché il CUP ha detto che era sufficiente presentare il codice fiscale. La dottoressa, pur rimanendo perplessa, è riuscita a portare a termine la procedura.

Ho i due appuntamenti ma, nonostante questo, provo un notevole disappunto.

Innanzitutto mi aspetto che il CUP sia FONTE AUTOREVOLE primaria presso la quale potermi informare, ma i fatti dimostrano che così non è.

A un anno esatto da inizio emergenza, con una campagna vaccinale dalla portata storica, immagino che i servizi telefonici del CUP potessero essere potenziati esponenzialmente, specie i primissimi giorni in cui si aprono le prenotazioni del vaccino a nuove fasce di popolazione.

Se è ben vero che vi è estrema difficoltà nel trovare chi fisicamente inoculerà il farmaco, fatico a credere che non si possano ingaggiare/istruire professionalità da call center DEDICATO, ovvero limitato alla prenotazione del solo appuntamento vaccinale, da poter assumere a tempo parziale, per fronteggiare l’emergenza.

Il mio pensiero va ai vecchiettini meno fortunati dei miei che non hanno figli o parenti o amici giovani che possano aiutarli a prenotare l’appuntamento e accompagnarli (il vaccino di fa alla Centrale Idrodinamica in Porto Vecchio e bisogna anche arrivarci!).

Per oggi ho detto tutto. Amen.

Pimpra

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QUANDO GETTARE LA SPUGNA?

FONTE WEB

Perché questo curioso titolo? Frutto di una riflessione che mi corre dietro da parecchio.

Arriva un momento, nella vita di ciascuno di noi, in cui dobbiamo cedere il passo e ammettere che facciamo parte di una generazione che appartiene al “passato”, a un tempo che ha … esaurito il suo tempo?

Non è questione di giovani contro vecchi ma proprio di generazioni che sono, oggettivamente, molto distanti.

Cerco di spiegarmi meglio.

Credo che più o meno tutti noi, con diversi livelli di intensità/partecipazione, utilizziamo/siamo presenti almeno su un canale social, quale che sia. Dall’ormai obsoleto Facebook alle più gettonate piattaforme giovanili, penso a Tik Tok, solo per citarne una, esistiamo, o comunque guardiamo stories e immagini su Instagram, seguendo diverse persone, brand, gruppi. Per non parlare dello scambio di notizie su Twitter, dell’uso smodato di watsup e telegram.

Un mondo fatto di finestre senza tende, sulle quali chiunque può affacciarsi, interagire e, altrettanto chiunque può mostrarsi.

Non mi interessa dire se la cosa sia positiva o negativa, osservo però che questo particolare modo di stare al mondo, anche virtuale, ha dato un’accelerata impressionante alla differenza che si crea tra le generazioni.

Dai nostri genitori che da non molto hanno imparato ad utilizzare le chat di watsup, con fatica, perché quell’oggetto che si chiama smartphone è ancora abbastanza misterioso, a noi, generazione X che ci sentiamo ancora in sella su questa “modernità”, ma cominciamo a fare molta fatica. Almeno questo è quanto accade a me, sarà che non ho figli.

Seguo, su più canali social, persone/personaggi di variopinte provenienze geografiche ed anagrafiche, oltre che di diverse estrazioni e professioni, resto molto impressionata dalla quantità di immagini/video/storie contenuti che producono, instancabili, convinti, nel duro lavoro di aumentare la community che li segue, magari cercando anche di guadagnarci, dopo aver visto soddisfatto il narcisismo innato di ricevere moltissimi “like”.

Questi giovani, molto moderni (intendo le generazioni Y “millenials” e Z ), sono instancabili, vivono una realtà dentro la loro finestra virtuale, e si esprimono, e raccontano, e commentano senza sosta, a testa bassa, convinti.

Non sto criticandoli, anzi, li ammiro. Dedizione, inventiva, quell’energia legata alla giovane età, il sogno, l’immaginazione sul proprio futuro. BRAVI dico.

Poi guardo me, i miei profili social, e mi rendo conto, senza dubbio alcuno, che si percepisce benissimo la mia diversa età, il mio modo di comunicare che predilige ancora la parola scritta al video o alla storia (non ho ancora imparato a fare un montaggio decente!) e mi faccio la fatidica domanda: non è giunto il momento di ritirarmi, di farmi da parte, di smetterla di correre dietro alla modernità che non è più mia?

Arriva il momento in cui si smette di parlare e si inizia ad osservare in silenzio, perché la maturità suggerisce che è il tempo di fare spazio.

Dall’altra parte però penso che è bello mantenere viva la curiosità di capire come evolve il mondo, come le persone interagiscono tra di loro, di che cosa amano conversare, quello che condividono, le passioni, gli interessi. Poi, non tutto risuonerà interessante o utile, di questo ne sono sicura, ma sarà comunque un modo per “stare al mondo” o, almeno “corrergli dietro”.

La domanda che mi pongo è questa: la spugna va gettata prima o poi?

Chissà cosa ne pensate.

Pimpra

CORPO, BODY SHAMING E CERVELLO.

Fotografo: Carlos Caicedo –  @Cacecada
Modella: Jenny Hedberg – @byjennyyyy

Viviamo in un mondo a tratti stupefacente e terribile, fatto di straordinarie possibilità e di prigioni incredibili, un mondo, o meglio una società che celebra e seppellisce le persone a velocità supersonica.

Credo sia la storia dell’umanità rotolare in discesa verso una meta indistinguibile, rimestare le carte in gioco, modificare le regole, aumentare la velocità.

Il racconto di questa corsa verso il nulla è tempestato di miti che ogni modernità ha affisso nel suo tempo.

Il corpo, nostro motore, fonte di esistenza fisica, è divenuto sempre più significante improprio di un significato in continua trasformazione. Corpo che dovrebbe essere racconto personalissimo e unico con cui l’essere umano celebra il suo vivere, invece…

Ricordo perfettamente la mia adolescenza senza social ma con le riviste di moda che imponevano un’ideale di fisicità/femminilità siderale.

Ricordo lo scoramento che provavo dinnanzi all’evidenza di come fossi divergente da quei modelli imposti, ricordo le prese in giro per il mio fondo schiena abbondante e le tette piccole. Ferite mai rimarginate.

Nel mal di vivere o forse nel vivere male in quanto bersagli di messaggi sbagliati, forse i giovani di oggi hanno una possibilità in più per far sentire la loro voce. A fronte degli odiatori che, a sensazione, sono molto presenti in fasce di età più adulte – il che sembra essere una contraddizione, i giovani, o almeno molti di loro, ritagliano e difendono con forza la loro identità “differente”, scegliendo di allontanarsi dai condizionamenti sociali.

Molti ragazzi esplorano liberi la loro sessualità, non facendo mistero se essa sconfina i canoni tradizionali, giocano con il loro aspetto, rivendicando una libertà che diventa anche potere espressivo.

Numerosi adulti, penso in particolare a quelli dai 45 in su, covano un grande risentimento, un rancore, una gelida rabbia come se tutto ciò che nella loro vita non ha funzionato, meritasse di ricadere sugli altri. Leggiamo spesso di liti sui social scaturite da commenti ignobili scagliati contro altri esseri spesso sconosciuti, come se deridere, distruggere, infamare, seppellire l’altro, fosse il solo modo per risolvere i propri conflitti interiori.

La splendida Vanessa Incontrada posa nuda a difesa del suo e dei nostri corpi, rivendicando la libertà di essere se stessa, nel suo unico canone, ovviamente inverso rispetto a quanto la società attuale disegna.

Siamo sempre più vetrina aperta al mondo e così fragili dinnanzi agli altri e a noi stessi. Forse dovremmo fare un passo indietro e riconoscere che la sostanza migliore di cui siamo fatti è il cervello, con buona pace di tutti gli odiatori seriali.

Coltiva il pensiero e nutri il tuo corpo chissà non sia questa la strategia per vivere finalmente sereni.

Pimpra

AGOSTO A MILANO

Dettaglio di abito Versace. Museo Poldi Pezzoli

Fare la turista in una grande città quando i suoi consueti abitanti la lasciano per le vacanze è sempre un’esperienza da fare. Sono i palazzi, le strade, le piazze che prendono la parola, raccontando un diverso punto di vista.

Milano è austera e bellissima, provata dal recente lockdown che ha piegato e piagato la vita frenetica che è il suo marchio di fabbrica.

Ho incrociato qualche residuale colletto bianco, sempre impeccabile nonostante la calura estiva, veloce nell’andare, concentrato e teso verso una meta da raggiungere, un orizzonte da esplorare, un progetto da chiudere.

Qui c’è un’energia che altrove non si sente. Come se i milanesi fossero animati da uno speciale voltaggio di elettricità che è solo loro.

Mi sono goduta un museo che non conoscevo, con la  tranquillità necessaria ad apprezzare le opere e la mostra di abiti ospitata nel palazzo signorile. Un bel connubio che ho gradito assai.

Il caldo mi toglie la fame, così ho camminato senza sosta per ore, quasi senza bere e mangiare, in uno stato di catatonia resiliente e viva.

Sono entrata nei grandi templi dello shopping che per noi abitanti di provincia sono tappa imprescindibile, come fare un upgrade sulle tendenze, sul design, sul mood urbano che le città minori non esprimono con questo potenziale e intensità.

Continuano a rivolgersi a me in inglese, un tempo pensavo fosse per gli zigomi alti, oggi credo si tratti solo di look: non sono (mai) stata una modaiola quindi, per forza, devo essere straniera. Almeno credo…

A Milano ti senti povero, mai come questa volta ho avuto tale sensazione. Ti viene offerto il lusso ovunque, ti viene fatto vedere, ti è proposto ma per te che sei un cittadino “normale” quell’asticella è davvero troppo alta da raggiungere.

Nel tempio delle scarpe una gentile commessa mi voleva convincere che le Jimmy Choo a 369 euro erano un vero affare, sicuramente ma… idem il meraviglioso profumo a soli 250 euro, così almeno ha una fragranza unica, ne sono sicura ma… e potrei continuare l’elenco all’infinito.

Anche se ciò che posso permettermi è solo “guardare e non toccare”, questi stimoli visivi sono benzina per me, mi fanno ripartire certe rotelle arrugginite, aprono comunque nuove visioni, pensieri e immagini.

Milano vale sempre la pena, anche a 40 gradi.

Pimpra

FACCIAMO IL PUNTO

Fine giugno.

Solstizio estivo: fatto.

Profezia Maya: scollinata senza effetti apocalittici.

Progetti per l’estate? M A H .

Tango in milonga? M A H. M A H .

Non so come state messi voi ma è giunto il tempo di fare il punto della situazione.

Personalmente sopravvivo con una discreta dignità a questo strano momento storico.

Lo definisco così perché tutto quello che ho e non ho intorno mi pare strano: la gente con le mascherine, il gel igienizzante ovunque, le regole dello stare insieme (sempre più lasse a dire il vero), il tango argentino ancora ghettizzato e quindi impraticabile nella sua veste più sociale, quella della milonga, lo smart working che amo, ma che mi sembra comunque legato alla calamità, il mare che ancora non ho raggiunto perché non riesco a immaginarlo con il distanziamento.

Non so come vi sentiate voi, io definirei il mio stato attuale STRANO.

La vita casalinga, leggi da smart worker, se da un lato mi rende una lavoratrice migliore – l’habitat consono e le relazioni sociali completamente assenti fanno bene al mio spirito – dall’altro mi ha resa la fotocopia della “zia Abelarda”.

Non ho più quella voglia insistente di uscire per il giro di vetrine e shopping connesso, sono diventata appassionatissima di verde e piante che curo con amore, il mio lato animalista è vieppiù rafforzato eppure…

Percepisco come una situazione di sospensione, come se i mesi da poco trascorsi non fossero completamente sotterrati e volutamente dimenticati, come se, poco più avanti, altre difficili prove ci stiano attendendo.

La mia è solo una sensazione “animalesca”, una specie di istinto, nessun pensiero razionale o ansia di fondo che non sono roba mia.

E comincio a sognare di quando ballavo, di quando tutti noi ballavamo e facevamo progetti meravigliosi e le vacanze estive erano il massimo per la programmazione di viaggi e di weekend da tango-dipendenti. Adesso percepisco silenzio, o piccole voci soffuse e mi sembra così strano, ai limiti del surreale.

La mia sarà un’estate scondita di viaggi e, probabilmente, di incontri, di persone, di quella vita caotica e colorata che tanto amo.

Mi auguro solo che la lupa che porto dentro si sbagli e che quella strana vibrazione di fondo che percepisco, si dissolva nell’alba del mattino.

Pimpra

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