IL GIOCO DELLE FINESTRE

Quando ero una bimba innocente, gli anni meravigliosi dell’asilo e delle primissime classi delle elementari, come tutti i bambini della mia generazione, mi dilettavo a disegnare.

Le più belle sperimentazioni che io ricordi erano quelle con gli acquerelli, di cui amavo, più che la resa su carta, il gioco della loro preparazione con il bicchiere d’acqua e i pennelli che regolarmente facevo tracimare sul foglio, in uno tsunami colorato.

Amavo le onde che si creavano sulla superficie, mi piacevano così tanto che continuavo a inzuppare la carta fino a che non si bucava.

Gradivo meno le tempere perché l’odore della vernice non mi piaceva particolarmente, al contrario dei pastelli che una volta provai addirittura ad addentare, tanto ero golosamente attratta dal loro profumo di cera.

I soggetti dei miei disegni erano ricorrenti, se fossi stata mia madre qualche domanda me la sarei fatta, la mia invece si limitava a dire che erano orrendi, ma questa è un’altra storia. Disegnavo solo una casa con il giardino, il vialetto di ingresso, un albero o tre alberi, il sole e le nuvole. Oppure il mare. Animali e ogni altro soggetto non erano di mio interesse e neppure insiti nelle mie capacità espressive.

Torniamo alla casa, aveva sempre un dettaglio di finestre. Non le facevo mai uguali, le spostavo nella facciata, ne mettevo molte o poche, ci disegnavo le tende. Se a mio giudizio riuscivano bene le finestre, l’intera composizione guadagnava una dignità artistica che chiedeva solo il placet materno che puntualmente non arrivava, ma anche questa è un’altra storia.

Perché oggi sto surfando nell’onda di ricordi così tanto lontani? Perché nulla in me è cambiato, nel senso che, anche nella mia piccola passeggiata dell’ora di pranzo, cammino a naso all’aria e … osservo le finestre sulle facciate dei palazzi. Ovviamente non disegno più da allora.

Oggi capisco bene perché la mia produzione d’infanzia ne fosse così ricca: oggi apprezzo il neoclassico del salotto buono del centro cittadino.

Le giornate di sole di questo giovane autunno, aiutano a scandire il racconto delle linee verticali e orizzontali quando non curve delle finestre che si susseguono come note appoggiate in una partitura musicale.

Un piacere per me godere del gioioso trillo architettonico di uno stile apparentemente così severo.

Il neoclassico cittadino è solo il mantello sobrio che nasconde l’animo sbarazzino e monello della città. Per goderselo bisogna tornare bambini e camminare con il naso all’aria.

Pimpra

IL TEMPO DEL RICORDO. NONNA NATALINA


Porto ancora il sapore caldo e forte della terra di Emilia. Fa capolino dinnanzi agli occhi quando, al mattino, tazza fumante alla mano, guardo fuori dalla finestra della cucina. La gatta ed io. Il nostro piccolo rito propiziatorio, controlliamo che il cagnone della casa di fronte faccia regolarmente la sua passeggiata. E’ un’attività che piace molto alla gatta, sembra si assicuri che lì fuori, nel suo paesaggio, tutto sia al suo posto, macchine, esseri viventi e cose.

La mattina prende avvio, raccolgo i pensieri e accendo la mia giornata. Obblighi, impegni, persone che devo incontrare ma di cui farei volentieri a meno. La vita della città.

Ai bordi delle mie strade non ci sono fiori, nemmeno erbacce, quelle che sfidano la durezza dell’asfalto, impunite, e riescono a mettere radici in ogni dove. Il paesaggio urbano è solo urbano, con poca, pochissima natura. Anche i cani che incontro hanno perso la loro naturalezza, vanno in giro con l’impermeabile griffato in pendant con quello del padrone. Mi sembrano un po’ tristi pure loro, perché umanizzandosi, hanno ricevuto anche le nostre frustrazioni, insieme all’impermeabile.

Procedo per la mia via, rammento il tempo in cui, bimba, percorrevo questa stessa strada, ora d’asfalto, che un tempo fu campagna. Ricordo i papaveri, l’erba alta, i fiori di campo. Amavo percepire i colori cambiare con il progressivo entrare dell’estate sulla primavera e dell’autunno poi.

Dovremmo tutti avere la possibilità di regalarci del tempo, il tempo del ricordo.

La campagna emiliana ha riportato in vita mia nonna Lina. Quando la strada non conosceva l’asfalto, lei lavorava nel campo con le cugine, in quelle belle famiglie in cui si stava tutti insieme. Alla sera tornava a piedi nel suo appartamento, quello che mi ha lasciato e dove oggi vivo, aggiungendo una passeggiata alla lunga giornata nei campi.

Non ho memoria di avere mai visto mia nonna materna depressa, arrabbiata o triste. Da bambina, spesso, le chiedevo se fosse felice, se non le mancasse di visitare altre città, altri luoghi. Lei mi rispondeva sempre che era felice così, a tagliare i cespi di insalata, a falciare l’erba a preparare gli ortaggi da vendere al mercato.

E’ venuta con me e la mia famiglia anche in Iran, per stare con noi, ma si capiva benissimo che quello non era il suo posto. Le mancava troppo il profumo delle zolle dopo la pioggia, le chiacchiere con le cugine mentre mondavano il radicchio dall’erba per la vendita al mercato. Le mancava la sua vita, fatta di semplici cose vere.

Crescendo la osservavo invecchiare, il corpo un po’ piegato dagli anni trascorsi a portare pesanti cassette sulla schiena, a stare lunghe ore inginocchiata sul campo, il suo corpo era più inarcato ma lo spirito sempre cristallino, fiero.

Spesso, quando andavo a trovarla, mi raccontava i suoi sogni o degli spiriti che venivano a farle visita alla notte. Al mattino, prendeva il “Libro dei sogni”, interpretava il messaggio ricevuto e andava a giocare i numeri del lotto in latteria e, molto spesso, vinceva.

Grazie al fine settimana trascorso in Emilia, lei è tornata prepotente alla memoria. Perché nonna Natalina è la campagna, il profumo dell’erba, la rugiada del mattino, i suoi fantasmi amici e le mani bruciate dal sole ma cariche di vita.

Pimpra

PS : la deliziosa bimba della foto passava per di là mentre cercavo di imparare a fare uno scatto dritto. Questa bimba ha reso la foto meno banale. Grazie piccina.

UN CANDIDO BUONGIORNO

Continuo a pensare che la neve che si presenta in città sia sempre un grandioso fastidio. Problemi di viabilità come minimo, per non parlare poi quando il manto innevato candido prende i colori dell’urbe, divenendo grigio e sporco come l’asfalto. E’ deprimente vedere tanta bellezza deturparsi.

Stamattina la bora ha placato il suo canto roco, le Gattonzole, stranamente, non mi hanno buttato già dal letto al terzo ripetersi della sveglia, al contrario, hanno preso posto vicino a me. Me ne accorgo perché, all’improvviso, qualcosa ostacola i movimenti, sono i loro corpi appoggiati al mio. Si avvicinano e si sistemano accanto mentre sono completamente dentro ai miei sogni, non so come sanno capire quando la loro umana è perduta tra le braccia di Morfeo. Ma lo sanno.

Facciamo colazione in compagnia, i gesti sono sempre gli stessi, la nostra danza del risveglio: loro mi precedono festanti in cucina, con le code bene alzate, ad uncino, miagolano gorgheggiando, si strusciano sulle mie gambe mentre preparo le ciotole con il loro cibo e poi, più gioiose che mai, intingono la testa nel recipiente iniziando a sgranocchiare.

E’ il mio momento di pace, accendo a basso volume la radio e guardo fuori dalla finestra. Ogni giorno il paesaggio subisce una variazione, sia per il colore dell’alba e i riflessi delle nubi, se piove o se c’è vento. La finestra diventa un arazzo regalato da un artista ignoto, ed io quel paesaggio lo godo, vedendolo diverso e sempre uguale.

L’emozione più grande la regala la neve, specie quando arriva inaspettata.

La tazza di orzo fumante tra le mani che solo a guardare il paesaggio un brivido mi corre lungo la schiena.

E’ il momento di accertarmi di quanto sia bassa la temperatura, esco sul balcone e aspiro l’aria pungente come fosse un nuovo profumo da scoprire. La sorpresa non manca, perché l’aria profuma di neve.

Ad ogni nevicata, negli anni più verdi della vita, corrispondeva una giornata speciale, il pupazzo allestito in giardino, la battaglia a palle di neve, la vespa 50 special che, impunita, mi lasciava a piedi che lei, il freddo e la pioggia non li gradiva e decideva che basta, non voleva accendersi più.

Ricordo le mani e i piedi eternamente gelati, i jeans stretti che sembravano puntellati di infinitesimali spilli, il naso rosso e lacrimevole di brina, gli occhi che pizzicavano per il freddo e per i cristalli di neve che entravano.

Sono passati gli anni, tanti, ma le emozioni sono sempre le stesse, uguali a quelle di sempre.

Dentro un fiocco di neve, ritrovo tutte le piccole me che sono stata. Oggi, ne ho aggiunta una nuova.

Pimpra

FOTO MIA

QUANDO PORTAVO I PANTALONI CORTI. II CAPITOLO.

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A volte, chissà perché, ci sono ricordi antichi che riaffiorano alla memoria.

Per fortuna, ormai, si ripresentano solo quelli belli, che emozionano con gioia, ho imparato molto bene a disfarmi di tutto ciò che rende il mio cuore ed il mio animo pesanti, poiché, tale fardello, non serve a nulla.

Quando avevo due anni e mezzo, prima di partire alla scoperta del mondo con i miei genitori, passavo le giornate con la nonna materna, la mia adorata nonna Lina, diminutivo di Natalina (ma che nome assurdo poteva essere?). La mia giovanissima mamma, mi ha avuta a 24 anni, lavorava presso uno studio notarile, perciò mi affidava alle cure di sua madre.

La nonna, non era una nonna di città, poiché, da sempre, ha lavorato nella campagna della famiglia, dove lavoravano la terra, zii, cugini, sorelle, nipoti. Alla vecchia maniera, per intenderci, quelle belle famiglie di una volta.

Il rito del mattino era la vestizione multistrato poiché, ai miei tempi, i primi anni 70, l’abbigliamento tecnico non esisteva. Ricordo perfettamente l’orrore di indossare la maglietta della salute di lana che ho sempre odiato poiché prudeva, strati di maglioncini infestati di odor di naftalina che svaniva quando arrivava la primavera e ci si preparava al cambio di stagione. Loro, ovviamente, subivano un altro tremendo trattamento.

Gli odori dell’infanzia li ho ancora nel naso.

Uscendo di casa, già da piccolissima, affrontavo una lunga camminata per arrivare alla campagna dove la nonna lavorava, perché, non si era usi accompagnare i piccoli in automobile, o, forse, la nonna non voleva, ricordo bene una sua frase “La picia ga de temprarse” (la piccola deve temprarsi). E così è stato.

Mentre mi faceva camminare, quando protestavo per la bora violenta, lei, per farmi passare il tempo e rendere il tragitto più piacevole, mi faceva cantare. Lo facevamo insieme, a squarciagola, come due pazze e ridevamo, quanto ridevamo!

Si arrivava prima in salumeria, per il “deca” di latteria,  la mortadella e il prosciutto cotto (in crosta di pane, qui al nord est è una specialità). Il salumiere mi regalava sempre una fetta di mortadella e l’oliva nera. Primo piccolo bottino che mi rendeva sempre molto felice.

Poi il piccolo panificio dove lei comprava tonnellate di pane per la grande famiglia, le “sciopete” che a me non sono mai piaciute perché troppo cariche di mollica, elemento ritenuto fondamentale da tutta la famiglia contadina, evidentemente la mollica sazia di più del pane crostoloso, mi sono detta da grande.

Poi, la latteria. Ve le ricordate? Luogo magico, profumato di un armonioso sentore di latte e formaggi, negozio sempre  piuttosto fresco a causa dei frigoriferi ma colorato di caramelle, merendine e di ogni piccola ghiottoneria da bambini.

Era il momento della passeggiata che preferivo, poiché, da un lato significava che la meta era vicina, dall’altro perché nonna Lina mi regalava le diavoline o le mentine, piuttosto che le rotelline di liquirizia (quando divenni più grandicella).

Ci sono ricordi che passano attraverso il naso, raccontati dagli odori della nostra infanzia. Basta richiamarli alla memoria e facciamo un balzo indietro nel tempo, a quando la vita era una avventura da scoprire.

Anche adesso, mentre digito sul mio pc, sento la mia fanciullezza tutta dentro di me, e, come per magia, percepisco la mano della mia amatissima nonna nella mia mano, mentre ci incamminiamo verso il nostro dove.

Pimpra

IMAGE CREDIT DA QUI

 

 

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