Le 7 tragedie in milonga che solo una tanguera può capire. #ditantointango

A tutte le amiche tanguere in ascolto saranno capitate le avventure più disparate in pista – e ovviamente anche fuori, ma quelle le custodite nel vostro scrigno segreto di ricordi.

Oggi voglio proporvi un gioco: le 7 tragedie vissute in milonga.

Inizio io e aspetto da voi divertenti contributi!

Tragedia n.1 — Il crollo strutturale

In una bella milonga estiva in riva al mare, parte la tanda di milonga. Intercetto un ballerino favoloso, dinamico. Dopo meno di un minuto un rumore sinistro all’altezza del tallone e un cedimento strutturale mi fanno crollare.

Fortuna volle che il cavaliere oltre che bravo fosse forte: mi ha trattenuta prima che finissi a terra.

Scarpe nuove. Mai successo prima. Imprecazioni interne. Cambio scarpe e via, ho ripreso a ballare.

Morale: anche se la milonga è sottocasa, partire sempre con il cambio gomme, un paio di scarpe in più.

Tragedia n.2 — L’invito che non arriva mai

Una delle situazioni che mi hanno sempre fatto infuriare, specie nella mia verde età di tanguera, è quando la mirada non solo non veniva accettata ma direttamente schifata. Sei trasparente, non esisti, sei un ectoplasma. Ricordo quanto ci stavo male, la malattia che ne facevo all’epoca.

Il mondo crollava in testa e l’autostima scendeva sotto il pavimento.

Anni dopo, quelle mirade hanno fatto centro. Ho ballato con quelli che erano stati i miei oggetti di desiderio tanguero. Una delusione assoluta. Io sono andata avanti, loro sono rimasti lì.

Morale: ho imparato che non ha alcun senso prendersela per inviti mancati. A volte è meglio evitarsi l’esperienza! Ma questo lo capisci dopo!

Tragedia n.3 — La tanda eterna

Vogliamo parlare della tanda eterna quella che non finisce mai? Il primo brano già ti parla di fuga. Al secondo ti rassegni. Al terzo ti chiedi se puoi emigrare senza passare per il guardaroba.

Morale: la prossima volta portati il revolver nella giarrettiera, almeno la fai finita più velocemente. Ovviamente ti liberi di lui!

Tragedia n.4 —Il wrestler

Il tanguero che non deve chiedere mai. Quello che ti abbraccia e sei sua.

Ti mette in gabbia e decide di marcarti anche il respiro. Ma mica con le buone eh! con una marca da wrestler, manco fossi un frigorifero senza le gambe.

Quando chiede un boleo, lo fa con una tale selvaggia virulenza che senti, una dopo l’altra, le vertebre scricchiolare e speri che la struttura regga il colpo!

Morale: alcuni li vedi e li eviti. Quelli mascherati ti fregano. Non ti resta che pregare e sperare che il tuo corpo regga i colpi. In fondo tutta la palestra che fai servirà pure a qualcosa!

Tragedia n.5 —L’igiene, questa sconosciuta

Arriva il momento che hai aspettato per anni, il ballerino dei tuoi sogni.

Ti alzi con fare felino, avanzi verso di lui senza togliergli gli occhi di dosso, mano destra nella sua, ti avvicini, lo abbracci e… vieni tramortita da un terribile odore di ascelle.

Il risveglio dal sogno tanguero è traumatico. Gli effluvi funesti nelle narici non ti fanno godere nulla, nulla, nulla. Non vedi l’ora che finisca.

Morale: il tango ti insegna a non avere aspettative. Mai, su niente e nessuno. Una lezione di vita.

Tragedia n.6 —Wardrobe malfunction

Ho ballato per un pomeriggio intero con un copricapezzoli sull’ombelico. Stendo un velo pietoso sull’imbarazzo che ho provato quando me ne sono accorta. Ma le amiche dov’erano?

Morale uno: buttate i copricapezzoli di silicone. Sudore e abbracci li fanno migrare.

Morale due: situazioni come questa mettono luce su chi avete vicino.

Tragedia n.7 —Essere “catafaro”

I dolori improvvisi che attanagliano nel bel mezzo della tanda. Sperimentato mai fitte ai piedi così forti da risultare invalidanti? Il medico ha sentenziato troppa sollecitazione e uso eccessivo di tacchi.

Morale: Arrivi a casa e ti fa male tutto. Ti senti peggio di un maratoneta dopo 42 km di corsa ma sai già che alla prossima milonga ci caschi di nuovo!

Adesso tocca a voi!

Pimpra

La dittatura delle scarpe: anatomia di una schiavitu’ glamour. #ditantointango

Photo by Apostolos Vamvouras on Pexels.com

Il cambio di stagione che per fortuna ho già fatto, impone, come ogni anno da 20 anni a questa parte, non solo di sostituire gli abiti “borghesi” ma pure quelli da tango, scarpe comprese.

Possiedo, come la maggior parte delle tangueras che hanno iniziato con me e che continuano, una collezione fototonica di scarpe da tango con il tacco.

Ricordo perfettamente che, agli esordi, cercavo lo stiletto più stiletto che ci fosse in commercio, più sottile possibile per svettare come fossi il cigno bianco di Tchaikovsky, eterea e leggiadra nell’abbraccio del mio ballerino.

Ne ho comprate paia su paia che, se potessi monetizzarle oggi, un biglietto per fare il giro del mondo lo avrei già in tasca. Più ne avevo, più ne volevo, compiacendomi come una pavonessa degli sguardi arrapati dei feticisti tangueri alla visione delle sublimi calzature.

Così l’estetica prese il sopravvento sulla funzionalità, divorando la funzione primaria dell’oggetto: ballare e mentre io credevo di diventare leggiadra, dinamica, in asse perfetto, un giorno una maestra mi disse “Senti, perchè non scendi dai trampoli che balleresti meglio?”

Una doccia fredda alla mia vanità, uno sgarbo alla mia infinita collezione di sandali, uno schiaffo morale alla mia ballerina interiore che si sentiva una libellula, issata sui 10,5 cm di tacchi a spillo.

Per fortuna sono una donna intelligente e riconosco i miei limiti e, soprattutto, do credito a chi ne sa più di me, quindi ascoltai l’insegnante e scesi di 1,5 cm. Mi pareva di viaggiare sulle nuvole del comfort, percepivo nettamente di muovermi sulla pista con più sicurezza, con più dinamica e stabilità.

Sul fronte dell’orgoglio vanesio, ancora potevo reggere, io e il mio codazzo di ammiratori feticisti che quel centimetro e mezzo di meno si poteva tollerare.

Continuando a ballare senza sosta, sempre di più, per più ore arrivò il giorno in cui scesi di un altro centimetro per assestarmi, per lungo tempo, su tacchi da 8 cm.

Quale meraviglia, la caviglia poteva estendersi, le dita grippare la soletta e aderire ancora meglio al pavimento, le catene muscolari che dalle estremità risalivano fin su alla schiena e oltre mi ringraziavano per il bel gesto.

Per molti anni ho continuato così, e pure la frenetica corsa all’acquisto scarpe si è acquietata, perchè oramai mi era chiaro che volevo ballare bene e meno mi importava di richiamare lo sguardo sulle scarpe che indossavo, quanto piuttosto sulla qualità dei miei appoggi a terra.

Il tempo passa, lo stile si modifica, le mode cambiano, dagli abiti “solo tango” siamo passati a quelli che usiamo al di fuori della pista anche in pista e successivamente, direttamente da Buenos Aires, sono arrivati loro, gli stivaletti alla caviglia, 3 cm di alzata (non si può nemmeno parlare di tacco!), che avvolgono il piede stanco in una morbida carezza di pelle di bufalo.

ORRORE IN PISTA ma PARADISO ai piedi, quella sincera sensazione di “sto volando”.

I feticisti del tango, e ce ne sono molti, ogni volta inorridiscono poichè una piazza come quella della milonga era la cornice ideale per l’espressione della loro parafilia, dichiarano convintamente “Io con quella non ci ballerò mai! Che orrore!”, sentito con le mie orecchie.

Molte tangueras di oggi, al contrario, hanno abbracciato questa rottura degli schemi, delle convenzioni, il dover essere sempre seducenti, sexy, brillanti, a scapito di provare dolore.

La scarpa torna alla sua funzione originale: oggetto utile a ballare (bene). Pertanto, chi ce la fa continua a troneggiare dall’alto degli stiletti, ma si sta affacciando una nuova generazione di ballerine che alternano molto volentieri le scarpe da pratica a quelle più alte.

La dittatura del tacco è finita! Evviva la comodità!

E tu, che ballerina sei? 😉

Pimpra

QUELLE FRIVOLEZZE A BORDO PISTA CHE TALI NON SONO. #ditantointango

Quando sono a bordo pista osservo i danzatori con interesse e curiosità. Di solito miriamo il/la partner che conosciamo, oppure andiamo alla scoperta di nuovi abbracci.

Guardo le movenze, ma pure i volti di entrambi, cercando di capire se la magica connessione prende i due elementi della coppia. Dagli sguardi, da piccoli segnali del corpo, con attenzione e pratica, si possono immaginare delle sensazioni dalle quali il desiderio di farsi la tanda con talun* o talatr* cresce o si spegne.

In questo gioco alla ricerca della scintilla che illuminerà la data tanda, secondo me, entra un altro elemento, dall’apparenza superficiale ma che tale non è: l’abito.

Avete mai notato nelle mirade che fate e che ricevete quanto vi rubi o meno l’attenzione l’abito dell’invitante, caso follower, o dell’invitata, caso leader?

Sono sempre più convinta che il vestito indossato abbia il potere di esaltare, modificare, definire lo “stile” di chi balla.

In quanto follower, ho l’armadio strapieno di vestiti per ballare che ci potrei fare un mercatino dell’usato, ovviamente, come la quasi totalità delle donne, quando devo decidere cosa indossare in milonga o mettere in valigia per un evento, mi sembra che l’armadio 4 stagioni sia vuoto.

Il vestito non risponde unicamente alla logica del comfort poiché ballare implica movimento ma, in primis, a una dimensione della mente, sempre diversa, che deve trovare un vantaggioso accordo tra ciò che il corpo desidera fare e l’asse mente/cuore trasmettere. Pare una banalità, ma se ci fate caso, quasi nessuno indossa cose a caso. (Ho scritto “quasi” nessuno).

Percepisco una netta differenza nel modo di ballare se indosso una gonna fluida che si muove con me e accarezza i movimenti, piuttosto che quando ballo con un abito fasciante tutt’uno con la pelle. Non si tratta di comodità per le gambe, quanto di una sensazione sottile che da dentro (emozioni/sentimenti/percezioni) riverbera all’esterno.

Non solo la forma e la struttura dell’abito ma pure il colore ci influenza, la stampa, le cromie più o meno forti o delicate.

Credo che anche per l’uomo sia un po’ la stessa cosa, con la sola differenza che - fino ad ora- è legato all’utilizzo dei pantaloni e quindi le possibilità di variazioni sul tema sono più ridotte, ma non si sa mai come il costume possa evolvere in futuro.

Di base siamo sensibili a sottigliezze di cui nemmeno ci rendiamo conto e, sia quando scegliamo la persona con la quale ballare che quando siamo scelti, anche questi dettagli, apparentemente poco importanti, finiscono per giocare un loro ruolo.

Per concludere, ricordiamoci che “mezzo è messaggio” e che l’abito – sempre - parla di noi.

Pimpra

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FREE THE NIPPLE. SI’ MA…

In questa calda estate, mentre rientro dal lavoro a piedi concedendomi una camminata flâneuse, ho notato sempre più di sovente, giovinette adolescenti e giovani donne indossare striminzite e aderenti magliettine, senza reggiseno.

Non ho potuto non notarlo, poiché, dinnanzi al mio sguardo, ho assistito alla danza tremolante del seno e dei capezzoli che, come occhi, giravano lo sguardo da una parte e dall’altra.

La prima volta che mi sono imbattuta in tale spettacolo ne sono rimasta incantata ma, al ripetersi comune di tale danza, quasi non ci faccio più caso. Vero è che sono una donna eterosessuale e che le tette non mi muovono gli ormoni. Non credo lo stesso ragionamento valga per un maschio.

Le giovani, giovanissime, portatrici sane di acerbo splendore mettono in mostra una parte del corpo di indiscussa bellezza, sono la prima a dirlo, ma non posso non pensare a un certo tipo di conseguenze.

Le vedi camminare che sembrano nude, ma non lo sono, in quel malizioso gioco di vedo e non vedo che cattura lo sguardo e l’interesse più di un corpo totalmente svelato. Seni alti, piccoli, rigogliosi, capezzoli puntiformi o maestosi, forme e dimensioni che la natura ha creato giocando con le possibilità.

In questo spettacolo, distolta l’attenzione dal corpo, osservo le dinamiche che si creano intorno a queste piccole donne: sguardi felini, predatori, bavosi di alcuni1 maschi che incontrano nel loro percorso. Sembrano lupi e le giovinette indifesi agnellini.

La libertà di essere e di esprimersi è un diritto ma, se fossi madre di una di loro, qualcosa vorrei dire loro. Il gioco della seduzione, il piacere di mostrarsi provocanti e impunite, libere e selvagge ha bisogno di maggiore consapevolezza che altro non è che una scelta più oculata su chi fare avvicinare.

Questo mi preoccuperebbe se fossi un genitore.

E questi giovani uomini, come percepiscono il potere del corpo delle donne? Con rispetto, con desiderio, con un sentimento di cura? Bisognerebbe chiederlo a loro.

Quanto al mostrare/mostrarsi a parer mio qualcosa toglie alla curiosità: quello che c’è non è più celato, il mistero svelato da subito. Perderei immediatamente la curiosità della conquista ma faccio parte di una generazione molto “antica”.

E voi che ne pensate FREE THE NIPPLE oppure no?

Pimpra

IMAGE CREDIT DA QUI

  1. In origine il post riportava la frase “sguardi felini, predatori, bavosi dei maschi che incontrano nel loro percorso. Sembrano lupi e le giovinette indifesi agnellini.” Accetto il suggerimento dell’amico Riccardo Galasso su FB che propone di scrivere ALCUNI maschi. ↩︎

NO LEADER? NO PARTY! #ditantointango

La butto in caciara ma, in realtà, credo si tratti di un argomento pesante, specie per il pubblico femminile.

Non disporre di un partner di ballo. Praticamente l’80% delle donne danzanti che conosco vive questa condizione.

Non avere un parter fisso cosa comporta?

Sicuramente mette in gioco ed esalta le qualità di follower: ogni uomo un abbraccio, ogni uomo una lettura musicale diversa, con ogni uomo un mix fisico diverso. [BENEFICIO]

Starci, seguire, leggere tutte le sfumature, proprio perchè non si conoscono, non sono “casa”, di certo accresce molte qualità della tanguera: sensibilità, connessione. [BENEFICIO]

Ciò detto, mi vengono in mente cose:

  1. percorso di studio: sempre più complicato trovare qualcuno con cui studiare, e penso non solo ai corsi ma agli stages, alle private…
  2. stile personale: se la follower sente dentro di sè di avere qualcosa da esprimere come tanguera, chiamiamolo uno “stile personale” un po’ più spiccato che si distingue dal tipico canone di “seguidora”, fatta eccezione per alcune follower di dichiarato talento, per tutte le altre sarà ben difficile poter lavorare ed esprimere la loro cifra stilistica più personale
  3. la fame: le vedi in sala, in attesa di quello sguardo, di quel battito di ciglia che prelude una tanda. Affamate di tango, in perenne attesa di venir soddisfatte. Molto spesso se ne tornano a casa con le pive nel sacco, perchè… non abbastanza brave, non abbastanza seguidore, non abbastanza giovani, non abbastanza qualcosa.
  4. Eventi: no leader, (quasi mai) no party. Siamo troppe e loro, sempre troppo pochi. Liste di attesa, e tantissimi no.

Da 1 a 4 solo criticità.

Poi c’è tutta la sfera psicologica che si attiva negativamente quando la follower non fa parte della/e cerchie, perchè è una cosa che si sente sulla pelle appena metti piede nella sala che “stai fuori”. Puoi essere dannatamente brava ma se non fai parte del cerchio magico, avrai poche chances di giocarti delle tandas. Come si fa a dimostrare la propria bravura se non vi è l’invito.

Non si tratta di piangersi addosso, si tratta di trovare una soluzione.

Studiare, ma stavolta da leader. Studiare da paura in versione maschia. Le migliori lo fanno già da tanto tempo, sono ballerine di livello decisamente superiore, richieste dalle loro amiche follower e pure dai leader che ne riconoscono le indubbie qualità.

Ballare il tango non è un’attività democratica, non è come fare sport che se ti alleni migliori, magari solo rispetto a te stesso.

Ballare il tango ti sbatte in faccia la realtà della vita che se non sei in equilibrio sui tacchi e con te stessa, l’energia che emani è contaminata e tutti se ne accorgono, lasciando la malcapitata a fare da sfondo alla tappezzeria.

No leader, no party.

Non scambierei comunque, per nessuna ragione al mondo, il fatto di stare nel gruppo follower, non fosse per le mie amatissime scarpe con il tacco.

No leader? I’m the party!

Pimpra

LA GIAGUARA TORNA IN COLLEGIO

Ho chiuso le mie ferie estive con una bellissima gita a Marina di Massa. Scarpette da tango in borsa, tre amici deliziosi, chiacchiere e allegria.

La prima vera maratona dopo… 3 anni?! Un periodo infinito che ho vissuto in totale “astinenza”.

Ripresentarmi in pista dopo così tanto tempo ha richiesto una dose incredibile di coraggio e faccia tosta. Epperò, mi sono detta, dopo tutti questi anni, qualcosa sarà pure rimasto.

Basta organizzare la mente e il beauty: il mantra interiore ripeteva “Vai e goditela”, il beauty attrezzato con brufen e fiori australiani contro l’ansia. Questo è invecchiare in modo intelligente e furbo, dicevo a me stessa preparando il bagaglio.

Non potevo scegliere evento migliore. La Colegiala è una navicella spaziale che ti proietta nello spazio siderale del piacere e del divertimento. La location nella vecchia colonia della Fiat, in quegli spazi anni 30′ dove sono passate generazioni di ragazzini, la spirale sulla quale si affacciano le camere, spartane come un monastero, ma, alla fine, dotate di ciò che è strettamente necessario, creano un’atmosfera unica.

La proposta della serata a tema, manco a dirlo il sabato, è una provocazione in più per lanciarsi in creative mise che, di solito, in pista, producono un effetto esilarante.

Ho sentito per la prima volta dei Dj che lavorano in tandem. Mi sono chiesta il perchè in coppia rispondendomi che, in questo modo, la pausa pipì non interrompe il flusso musicale. Probabilmente non è la risposta giusta, ma solo il punto di vista da donna che ha più spesso necessità di… “blin blin” 😉

Oltre all’accoglienza calorosa dello staff molto nutrito, che peraltro ho sempre ritrovato in ogni edizione, sono stata letteralmente abbracciata dalla straordinaria energia positiva dei partecipanti.

Ho incontrato persone che vedevo solo nei pixel virtuali del pc, ho rivisto amici che, nel frattempo, hanno allargato la famiglia, è stato un tripudio di sorrisi e di abbracci.

La buena onda alla Colegiala, nasce già fuori dalla pista, in questa vibrante allegria che i padroni di casa spruzzano nell’aria, i ferormoni della felicità.

In tutto questo, il mio tango arrugginito, dal sapore “vintage”, si è riaffacciato alla pista risalendo verso il cuore, emozionandomi, divertendomi, lasciandomi sorpresa, dando una sferzata di Vita a tutta me, facendomi sudare (di più) per l’emozione, facendomi (ri)sentire fibre del corpo di cui non ricordavo l’esistenza.

La magia era tutta lì, davanti ai miei occhi e non me la sono lasciata sfuggire.

(Felice me).

Pimpra

ANCHE IL TACCO FA LA TANGUERA

Sto per scrivere un concetto che sicuramente cozza con quanto espresso tempo addietro, mi prendo il sacrosanto diritto di cambiare idea ma, preciso, mi piacerebbe avere uno scambio di opinione con altre donne.

Ho visto ballare il tango da tangueras in infradito, scarpe da ginnastica, scarpettine da jazz, salva piedi insomma senza indossare le tradizionali calzature con il tacco e il loro tango poteva esprimersi come se nulla fosse. Fluido dalla terra al cielo, sgorgare nel loro abbraccio, risplendere nel volto.

Anche a me è capitato di darmi a pazze danze indossando inappropriate sneakers, quando non sono stati addirittura gli anfibi, l’ho fatto, ma si trattava di puri attimi di follia o di necessità mediche.

Mi sto convincendo che la tanguera è anche i tacchi che indossa.

Quasi tutte le balleirne in erba, una volta scoperti i meravigliosi sandali dall’altissimo stiletto, sono cadute nella trappola di volerli indossare come a sancire con la loro altezza l’ingresso nel mondo della milonga. Ex (danzatrici) classiche a parte, dotate del famoso “collo del piede” formato dalla durissima disciplina, per la quasi totalità della platea di praticanti la nuova arte, i tacchi altissimi sono stati una vera e propria tortura, salvo casi rarissimi, conducendo le addette a notevole sofferenza fisica delle estremità.

Studiando e crescendo nel tango, ognuna di noi ha saputo fare i conti con i suoi limiti adattando il tacco alla ballerina e non il contrario. Aggiungo: meno male. Meno armadi appesi alle braccia del povero leader, maggiore dinamica, equilibrio e asse mantenuti con più costanza.

Ma il punto della questione non è questo.

Il tacco per la tanguera è il catalizzatore della sua “giaguara” interiore, dentro e fuori dalla pista. Essere oramai capaci di portare i tacchi e camminarci veloci, come si trattasse di indossare sneakers, perchè il corpo ha appreso l’arte di cercare il suo asse anche quando la superficie d’appoggio è più ridotta, rende la donna più sicura di sè, più elegante nell’incedere, più sexy se lo desidera.

Fate questa prova, amiche tanguere, nel corso della vostra giornata, passate da scarpe basse a un paio con il tacco e poi mi raccontate come vi sentite cambiare dentro, come se quella donna sempre presa da millemila cose da fare, pensare, organizzare, ad un tratto si fermasse mostrando attenzione a se stessa.

Un vero miracolo, una dedica d’amore rivolta a noi stesse.

E’ primavera, il cambio di stagione degli armadi è imminente, il cambio di attitudine mentale è atto dovuto: apriamo le porte a tutte le sfumature possibili delle donne che sappiamo di essere.

Buon divertimento a tutte!

Pimpra

COSA MI HA INSEGNATO IL TANGO SULLE DONNE.

foto credit Riccardo Lavia

Oggi i ricordi di Fb si spingono molto lontano nel tempo, a questa immagine di 10 anni fa.

Una me rispettosa del codice della milonga che chiedeva di indossare qualcosa di verde, in onore dei musicisti, il Duo Ranas.

Il verde è il colore che indossano le donne sicure di sé, quelle che credono/sanno/sono/si vedono belle. Rovistando negli armadi per prepararmi alla festa, non ho trovato verde da nessuna parte.

Ricordo che anche all’epoca, mi venne questo pensiero in testa: perché non ho mai considerato il verde? Mi piace pure, nelle sue diverse sfumature, intensità, più caldo o più brillante o freddo come il ghiaccio.

Io non ero all’altezza di vestirmi di verde, eh no.

La milonga fu un successo strepitoso: mi divertii tantissimo, ballai a fondere la suola delle scarpe, il concerto fu potente e magnifico. Una serata magica.

Chiesi la foto che vedete a un amico tanguero, ovviamente mi misi in posa, scimmiottando in modo assolutamente poco credibile, per non dire grottesco, la posa di una donna fatale, una che con il verde ci va a nozze. Sono passati 10 anni e, tanda dopo tanda, quella piccola donna in me è cresciuta e vive felice.

La Giaguara (dentro e fuori la milonga), non deve per forza indossare completi leopardati, tacchi a spillo H24, rossetto rosso carminio o mattone notte, per essere una vera Giaguara.

Si tratta di una dimensione dell’anima, di uno stato di totale riconoscimento della donna UNICA che si è.

Il tango, questo mi ha dato, a me che ho sempre avuto pudore di mostrarmi, non pensando mai di poterlo fare temendo di essere ridicola.

Poi lo stop della pandemia, due anni lontana dagli abbracci così cari, dalla musica capace di smuovemri sempre qualcosa dentro, lontana dal quel gioco di seduzione che si esprime sulla tenuta di uno sguardo, sulla mirada convinta, sicura, sorniona, giaguara.

Mi manca e pure io manco a me stessa.

Le tonalità del mio armadio sono molto coerenti, perchè mi piace quello che piace a me, ma il verde, nuovamente, manca.

E’ decisamente giunta l’ora di andarmelo a riprendere. Costi quel che costi, perchè la vita va avanti. Sempre.

Pimpra

PS: questo post stava nelle bozze da tanti mesi, non è frutto di un impulso odierno. Solo le ultime frasi lo sono, questo per dire che faccio molta fatica a sorridere e a fare finta che la vita di oggi sia uguale a quella di soli 3 anni fa.

Ma ho imparato che continuare a vivere, a resistere, ad essere resilienti è una dimensione dell’anima che dobbiamo nutrire perchè questo ci stanno insegnando i tempi: la vita cambia in un istante, senza preavviso.

Il mio cuore urla LOVE AND PEACE.

LA MIA COPENHAGEN

Il desiderio irrefrenabile di andarci mi è arrivato inaspettato, un giorno di tarda estate, capitando per caso nella bacheca di una conoscente. Gli occhi hanno avuto un sussulto emozionato che si è riflesso immediatamente sul cuore: dovevo visitare quella città.

Complice il weekend del mio compleanno, invece del solito pacchetto infiocchettato, ho ricevuto una mail con il biglietto aereo e l’hotel. Stavo per svenire di felicità davanti al pc.

Ho volato con gli olandesi di KLM, una compagnia aerea che non mi ha mai deluso, sin da quando, in tenera età, vi volavo tra Medio Oriente e Africa, resta tra le compagnie aeree preferite.

L’aeroporto di Copenhagen mette immediatamente il viaggiatore in una dimensione di piacevolezza, non è rumoroso, luce gradevole ovunque e il pavimento di legno. Non potevo credere ai miei occhi. Molti spazi dove rilassarsi e familiarizzare con il famoso “Hygge”.

L’albergo in centro, una chicca in puro spirito danese, legno, luci, sedie particolarissime, caminetto, personale giovanissimo e super gentile, camera dai colori neutri, caldi e rilassanti. Mi sono sentita immediatamente a mio agio.

La bicicletta, per i danesi, è come lo scooter per i triestini: fondamentale. TUTTI la usano, non ne ho mai viste così tante, così “bizzarre”, tutte insieme. Utilizzarle in città è semplicissimo evitando la produzione di smog, inoltre si pedala in tutta sicurezza perché ogni superficie stradale prevede la corsia dei ciclisti, con semafori e segnaletica dedicati. Si raggiunge in poco tempo, ogni angolo della città, inoltre, si può agilmente posteggiare il mezzo ai supporti, o, quando occupati, si lascia la bicicletta in fila, senza tema che venga rubata, danneggiata o altro. Mi è sembrato un sogno.

Altro vantaggio del turismo su due ruote: si evita la psicofollia delle foto, si pedala e si guarda, si assimila il paesaggio e si apprezza senza distrarsi, senza il bisogno imperante di condividere sui social, si sta, si vive, si gode del momento, si pedala. Evviva.

Copenhagen sembra costruita a dimensione uomo, non è una città che cannibalizza, ma piuttosto accompagna. Ci si può fermare nei caffè, ci sono tantissimi luoghi in cui concedersi uno spuntino, spazi esterni da vivere, certo solo nei mesi caldi, altrimenti ogni luogo pubblico offre, comunque, la possibilità di una sosta.

Sono stata rapita dalla fusione architettonica di antico e moderno, dove il design dalle linee essenziali, dialoga e si armonizza al contesto urbano precedente. Il “diamante nero” merita una visita, non fosse altro per apprezzare l’affaccio sul canale della struttura e il suo legame con l’antica biblioteca reale.

A Copenhagen il verde dei parchi cittadini non manca, così come si percepisce che la media della popolazione è molto giovane.

La sensazione che ho avuta è che al nord dell’Europa certi stilemi sociali non trovino casa: la sera di San Valentino ho visto numerose compagnie di amiche cenare insieme e ridere di gusto, coppie in tutte le sfacettature e combinazioni possibili, godersi il romanticismo senza bisogno di nascondersi. Naturalezza, convivenza, comunità, convivialità sono concetti che si vivono, non solo parole.

L’ambiente e la sua cura sono un baluardo, non ho incontrato un solo bidone esplodere per l’immondizia, tutto si differenzia, in modo consapevole, come fosse naturale farlo. Lo stesso cestino della camera dell’hotel era diviso per tre tipi di raccolta. L’acqua da bere si trova spesso nel tetrapack per evitare la produzione di plastica.

Se si parla di danesi non si può prescindere da almeno tre delle loro fissazioni: le candele, la luce, le sedie che confluiscono tutte in quella dimensione dell’anima che si chiama “Hygge” (una sorta di “Cozy” inglese).

Gli spazi, e la cosa mi ha colpito molto, sono arredati spesso con giochi di sedie, poltroncine e divani, diversi per forma e design, tutti incredibilmente confortevoli. Non per nulla alcune delle più iconiche sedie del design mondiale, vedono la luce dalle mani di sapienti maestri danesi. Il legno spadroneggia negli arredi quasi ovunque.

I popoli nordici, complice il lungo inverno, le poche ore di luce, il freddo, vivono la sacralità del luogo, della compagnia, dell’ambiente, della famiglia. Ecco che ricreano le condizioni ideali dove stare, come starci e con chi.

Se non si raggiunge almeno il metro e settanta cinque di altezza ci si sente un vero tappo di bottiglia, sono una popolazione alta, alta, alta e tanto, tanto, tanto bella. Le sfumature di biondo dei loro capelli, gli occhi in tutte le gradazioni del blu, dell’azzurro con tocchi di verdi.

Il mio personale momento di gloria l’ho vissuto quando il receptionist danese mi ha chiesto se fossi svedese (a me!!!!), ridendo ho risposto “100 % italiana e poi sono troppo corta per essere una svedese”, lui ha insistito affermando con convinzione che la mia faccia ha i lineamenti svedesi, in quanto all’altezza ci sono svedesi piccole. Da questa affermazione mi sono cuccata il bell’appellativo “La svedese nana” che mi ha accompagnato per tutta la vacanza.

Sarà che fanno molto sport, oltre che andare in bicicletta, ma ho faticato a vedere persone che non fossero in perfetta forma fisica. Pochi, pochissimi abitanti per così dire in sovrappeso, deduco quindi che il freddo faccia bene perché in quanto a condimenti grassi e burrosi, formaggi e carne, colà siamo nel paradiso delle iper calorie.

A me l’aringa marinata comunque resta indigesta.

Passeggiando per strada con la faccia da turista, il volto paonazzo per il vento gelido e l’espressione felice (quante volte ho pensato “meno male che sono triestina e la bora mi ha abituato a questo freddo), ho ricevuto in regalo sorrisi dalle persone che incrociavo che mi pareva un miracolo.

I danesi sorridono. Non li ho visti musoni, nevrastenici, se c’è da aspettare si mettono in fila tranquillamente, non si agitano. Incredibile.

In Danimarca di Covid manco l’ombra. Nel senso che se c’è, e pure da loro c’è, è una delle malattie di cui non si fa battage ovunque come da noi. Nessun green pass, massima libertà e… che bello!

Ho avuto la sensazione che le donne danesi siano molto indipendenti, libere e in questo ho percepito quella gaiezza delle mie donne triestine. Non sono riuscita a fare la foto di un equipaggio di canottiere almeno sessantenni, una mattina gelida, con la barca d’appoggio in cui c’era una loro nipotina che le seguiva felice. La bellezza di queste gagliardissime signore, non ho potuto non salutarle, incitarle, mi hanno sorriso e salutato a loro volta.

Voglio trascorrere la mia pensione qui, tra i meravigliosi popoli vichinghi, anche se le birra non mi piace e il freddo lo sento eccome, a differenza loro, ma… mi è stato fatto notare “Chi ti mantiene a te?” e il mio sogno si è dissolto come un fiocco di neve sull’asfalto…

SE PREVEDETE UN VIAGGIO, ECCO LA MIA LISTA:

  • per la prima volta la Lonley Planet mi ha tradita: comprate una guida scritta post 2021, il covid ha tristemente cambiato molte cose (negozi spariti, siti chiusi ecc ecc)
  • non fate bancomat all’arrivo che non serve, si paga tutto con la carta, in alcuni luoghi il contante non è accettato
  • non si visita la Danimarca se non si va in bicicletta
  • la voce cibo influisce pesantemente sulle spese di viaggio, per noi molto molto costoso. Però a Copenhagen si può mangiare davvero bene, è una città particolarmente “stellata”. La ristorazione italiana molto presente.
  • concedetevi il tempo della sosta per apprezzare ciò che vi circonda e, perché no, chiacchierare con i locali. In una parola fate Hygge pure voi
  • ho assaggiato un cidro spettacolare, a 4,5% che mi è andato in testa immediatamente (sono completamente astemia) aveva un sapore buonissimo
  • fatevi consigliare sui dolci danesi che alcuni meritano, per me la scoperta il brunsviger.

Una volta desideravo visitare i paesi caldi, crescendo il nord sta rubando attenzione ed interesse. Adesso capisco il perché.

Pimpra

DA GIAGUARA A GATTARA E’ UN ATTIMO

Ho ancora un’immagine molto chiara di me quando, lunghi anni or sono, iniziai a muovere i primi passi in pista, indossando le prime scarpette da tango con il tacco a rocchetto.

Mi pareva di essere l’incarnazione di Carla Fracci in versione tanguera, per quanto il mio animo si rallegrava e fluttuava nell’aria alle prime note di un tango.

Nel fluir del tempo e delle ore passate a ballare, anche io fiorivo insieme ai progressi regalati dallo studio, dall’entusiasmo che ci ho sempre messo, dalla voglia di diventare la migliore versione di me stessa bailarina.

La fioritura, devo riconoscerlo, si è manifestata con i frutti più belli nella donna che sono diventata, tanto che, ad un certo punto, anche indossare tessuti dalle stampe rubate a tutti gli animali della savana, mi sembrava assolutamente adeguato alla Giaguara che ero diventata.

Poi, un giorno, tra capo e collo, arriva il virus che spariglia le carte e mi trovo in astinenza da 24 mesi. Un tempo inimmaginabile, eterno, infinito in cui non ho messo più piede in pista.

Per sopravvivere al digiuno forzato che mi ha tenuto lontano dalle piste, in casa mi è arrivato un nuovo gatto, ed ecco che ho toccato con mano la mia nuova mutazione genetica: da giaguara a gattara.

Abbandonati i tacchi per andare in bicicletta, ancora lontana dalle milonghe, non so nemmeno io il perchè, mi ritrovo l’armadio senza più pois, maculati di ogni tipo, e abiti ultra sexy.

Da giaguara a gattara. Fine della storia triste.

😀

Pimpra

Sguincettino la new entry

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