ESSERE ULIVO.

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Non mi sono mai particolarmente soffermata a ragionare su quanto, nella mia vita, avessero contato i “cicli”. Ho sempre viaggiato leggera, appoggiandomi al pelo dell’acqua delle mie esperienze, senza prendermi il tempo di farmi le domande necessarie a capire, e meno che meno, a trovare le risposte di quanto stavo vivendo.

Una veloce corsa attraverso le esperienze, il tempo, il fluire di me stessa che cresceva, che invecchiava.

Si avvicina la boa d’età che, non si capisce per quale ragione, segna una tappa molto importante, poiché stabilisce e dichiara al mondo l’ingresso in una fase specialissima.

Vivere, dovrebbe essere speciale di suo.

Godere del proprio respiro, della luce che rallegra le nostre giornate, del profumo dei tigli in fiore, del frangersi ritmico dell’onda sulla roccia, del canto melodico degli uccellini, del fruscio delle chiome mosse dal vento.

Vivere è poesia. Ma, troppo spesso, non ce ne rendiamo conto.

Ripenso all’ultimo anno, a quello che è stato, alle lezioni di vita che mi sono arrivate come una mazzata.  Se volgo indietro lo sguardo vedo la sagoma oramai rinsecchita della pelle che mi conteneva.

Adesso sono libera.

Guardo a quella me che tra non molto festeggerà, grata, un nuovo inizio, perché è così che lo immagino, e mi scopro come il tronco di un olivo centenario, pieno di escoriazioni, di buchi, di nodi e di imperfezioni che lo rendono assolutamente unico.

La nuova porta che si è aperta in me, questo ha regalato, l’ulivo che sono diventata e che ho imparato, coraggiosamente, ad amare.

La gioia di capire che “piacere agli altri” per quello che  – si suppone – gli altri possano volere da noi, è una idiozia senza scampo. La vera libertà sta nell’essere. Se stessi, in verità.

I nodi, le asperità, i rami storti sono elementi che possiamo cercare di rendere più armoniosi per stare meglio noi e far star meglio chi ci sta intorno, ma guai a farlo per compiacere perdendosi dietro a ombre che non sono le nostre.

E non posso nemmeno esprimere che non trovo le parole, quanto mi sia lieta questa consapevolezza, quanto doni un sapore dolce, salato e piccante alla mia vita.

Con questa gloriosa baldanza saltello nelle ombre lunghe dell’autunno che piano piano si affaccia, anche se, settembre regala questi ultimi raggi che sono i più radiosi dell’estate intera. E mi faccio un selfie da adolescente per fissare il bel momento e scopro per caso il filtro “giovane, bella, senza rughe, perfettamente truccata”, scatto, osservo l’immagine di una me che non esiste… e mi tocca ripartire da zero con il mantra “Sono un ulivo imperfetto ma unico. Sono un ulivo imperfetto ma unico. Sono un ulivo imperfetto ma unico…” e maledico queste stronze di app che, per un attimo, hanno illuso di giovinezza.

Ma stavolta, ci rido su! OLE’!

Pimpra(nte)

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AMORE 2.0

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Lo spunto mi è dato dal gossip che circola in rete: pare che Ferragni e Fedez, la coppia più social del bel mondo italiano, si sia lasciata.

Voi direte “E chissenefrega!” oppure “Ferragni chiiii?” . I personaggi, probabilmente, sono noti solo a un certo pubblico di lettori, ma poco importa, ciò che è interessante è il modo in cui, nel XXI secolo, si viva l’amore.

… Ma quale Amore… vorrei scrivere… eppure…

La relazione moderna, 2.0 appunto, nasce, cresce, arriva al suo apice e muore, a suon di pixel, al ritmo battente di esposizione social.

L’amore moderno, la relazione, non vive più nella stanza segreta del cuore, dell’intimità più profonda, quanto piuttosto nell’esposizione mediatica del proprio sé.

A seconda dell’età degli amanti, ci sarà uno o più social scelti come emblema e messaggio di amore: dal classico FB, il più trasversale per età e diffusione, ai social-video diffondenti per i più giovani (you tube, snapchat, Instagram ecc), per non parlare poi, della gestione relazionale attraverso la chat di watsup.

Trovo il fenomeno massmediologico di grande interesse sociale, non voglio darne un giudizio di merito, perché l’età di chi scrive è troppo elevata per apprezzare a fondo le sfumature di un modo di vivere la relazione così “aperto”, pubblico, universale.

Già perché le relazioni moderne sono “universali e aperte”.

Un tempo, la coppia era un bene chiuso. Al di là delle temutissime corna che ci sono sempre state e sempre ci saranno, l’intimità veniva difesa come uno scrigno prezioso.

Oggi, accade esattamente l’opposto. Piace esserci, piace mostrare e mostrarsi, in tutte le fasi evolutive della relazione, dal suo nascere alla normale mortalità. Perché gli amori 2.0 si bruciano più veloci. A ritmo di shoot fotografici e di clip video.

Nell’analisi di costi/benefici, forse, amarsi, oggi è più facile, oserei dire quasi più “naturale”. Il placet sociale alla coppia è suggellato dall’approvazione (o disapprovazione) della rete. Il suo successo, idem. Esisti se ci sei, se danno il like alle tue foto e alle vostre dichiarazioni di amore eterno (fin che dura) che vi scambiate sulla pubblica piazza virtuale.

L’intimità non è più un valore.

Bisognerebbe capire se si tratta di un atto di coraggio o di estrema superficialità.  Ma non sono qui per giudicare.

Mi affascina piuttosto il fenomeno legato allo spregiudicato uso delle chat per fare innamorare e innamorarsi, specie ad uso e consumo della popolazione più adulta (dai 25 anni in su).

Certo, scrivere non è per tutti ed anche chi lo sa fare, più o meno bene, molto spesso viene travisato nel messaggio che desiderava trasmettere. Nulla di più difficile che far fluire emozioni/sentimenti/stati d’animo attraverso una chat.

Allora perché si fa? perché gli “adulti” scelgono, molto spesso, questa via per interagire, per costruire “relazioni”?

La domanda mi incuriosisce e vi propongo il mio punto di vista: si scrive per perdersi.

Afferrare lo smartphone sperando che l’icona verde di watsup riporti la medaglietta rossa di una chat attiva, crea la magia. Chissà chi sarà, chi mi pensa, cosa mi dice questa identità dall’altro capo della chat.

Poco importa se, il più delle volte, le parole vengono massacrate, violentate, abusate da chi le maneggia con totale inconsapevolezza, senza metterci un po’ di amore nello sceglierle, animato solo dalla velocità di passare un messaggio, di qualunque natura esso sia, a chi lo riceve.

Raramente, molto raramente, si ricevono messaggi in chat che si ha voglia di rileggere e magari di conservare, trascritti, sul proprio diario intimo. Di solito, on line, viaggia la spazzatura lessical/formale che ci portiamo dietro, animata dalla fretta e da un pensiero rivolto unicamente alla superficie delle cose.

Allora sai che c’è? come vorrei ricevere una bella lettera d’amore, come accadeva un tempo, scritta su una bella carta, con la grafia di chi me la invia. In modo che, oltre alle parole, nel tratto della penna sulla carta possa immaginare anche la personalità e la natura profonda di chi scrive

Un inno all’intimismo, alla supremazia della stanza segreta alla piazza, una volontà di ricerca di unicità e di personalismo da anteporre alla comunità, anzi alla community di utenti virtuali.

Ma io sono giaguara… una vecchia giaguara oramai… [sticazzi…]

Pimpra

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DI TANTO IN TANGO. DIETRO LE QUINTE DI UNA MARATONA DI TANGO

TOSCA 2013

Dall’esterno è tutto molto semplice.

Un weekend in cui si balla a finire, danzatori di entrambi i sessi di alto se non altissimo livello, musicalisadores con le palle, cioè non quelli improvvisati che tanto basta avere un pc portatile e sono bravi tutti, tandas orgasmiche, socialità, nuovi e vecchi amici, scambio, condivisione, gioia e divertimento.

La faccia scintillante della medaglia. Poi c’è il lato b, quello oscuro, che accompagna la maggior parte dei maratoneti, o, perlomeno, quelli “intellettualmente onesti” che hanno il coraggio di ammetterlo.

Gli aspetti psicologici che stanno dietro alla partecipazione a un evento del genere, hanno una portata emotiva molto intensa, quando non devastante.

La maratona, per come la intendo io, non è una “normale” serata di milonga ripetuta per più giorni. E’ molto di più.

Innanzitutto, le maratone “come dio comanda” prevedono un numero blindato e relativamente contenuto di partecipanti, di norma, selezionatissimi. Già qui, si scatena un putiferio emozionale poiché, tutti noi, nel nostro intimo, vorremmo essere convocati, invece -sticazzi-, non sempre possiamo essere annoverati nella rosa dei papabili.

E sono fastidi. Narcisi come siamo TUTTI, chi danza ancora di più, riteniamo la nostra esclusione un atto di lesa maestà che ci fa imbizzarrire fin nel profondo.

Facciamo che siamo tra i convocati. Primo orgasmo. Possiamo procedere a prenotare il viaggio e ad organizzare il soggiorno.

Arriva il momento di partire e, per entrambi i sessi, inizia la partita con le strategie da mettere in campo per godersi l’evento.

Le donne provvedono con attenzione alla scelta dei loro look, perché, mai come in maratona, ciò che colpisce l’occhio regala una percentuale in più nella riscossione dell’invito. E credo che per gli uomini sia lo stesso sebbene la motivazione di base sia diversa.

La prima serata di maratona, probabilmente, è quella a più alto tasso di adrenalina. Si “annusa l’aria”, si devono afferrare le dinamiche di pista, studiare i potenziali “avversari”, accertarsi della presenza dei propri ballerini/e preferite, magari incontrati in altre maratone e che, il più delle volte, vivono a  grande distanza.

Partono miradas che sembrano fiammeggiate di napalm, donne e uomini sembrano predatori nella giungla. Ed è così. Sangre y arena.

La maratona non è per tutti.

Chi le frequenta è animato da spirito agonista, voglioso, protagonista. Io voglio ballare e per farlo mi devo dare da fare, perché la concorrenza è spietata, c’è tanta qualità di ballo e tutti hanno il mio stesso, bruciante, desiderio. Non vale la regola “mi metto qui e aspetto”, resti lì e aspetti e speri fino alla fine dei tuoi giorni, seduto/a da solo/a.

Quando ci si mette in gioco così, è un po’ come spogliarsi dinnanzi a noi stessi. Non possiamo fingere ciò che non siamo, entriamo in contatto con tutte le insicurezze, le paranoie di cui siamo portatori.

Cosa c’è di più difficile di “mettersi in piazza”, di certo indossando un bel vestito, e iniziando a guardarci intorno alla ricerca di uno sguardo che incontri il nostro e lo ricambi? Quando il contatto avviene ma uno dei due non sostiene quell’intenzione e scivola via, quanto viene ferito il nostro ego?

Allo stesso modo le mille domande che iniziano a turbinare nella mente quando osserviamo chi è lì con noi, ai bordi di quella pista che, all’inizio, può anche sembrare infernale ma, una volta messoci il piede dentro, ci regala infinite delizie… ma mettercelo quel piede!!!

Amo la maratona perché psicologicamente mi violenta dentro, mi sbatte in faccia tutte le mie paure, esalta le mie insicurezze, e mi inonda di dubbi.

Allo stesso modo mi rafforza perché, maratona dopo maratona, ho sempre meno terrore di guardarle, ci entro in contatto, a volte le accarezzo pure perché mi rendono la persona che sono, nella mia fragile unicità e infondono nel mio tango tutta la vita di cui ha bisogno.

Non è per tutti, bisogna accettarlo. Pochi hanno la forza e il coraggio di vedere il proprio castello di carte crollare in un soffio, vedere le certezze di cui si erano ammantanti, sgretolarsi così, improvvisamente, tra un D’Arienzo e un Di Sarli.

In coro diciamo: STICAZZI!

E ringraziamo di avere questo dono tra le mani: siamo ballerini di tango.

Pimpra

IMAGE CREDIT: Giò Il Fuz

 

 

L’ ARTE DI ARRANGIARSI

Vive l'Afrique 10

Finalmente anche per me un bel week end di sole/mare, la pelle meno albina del solito e l’umore più gaio.

Passando il tempo morbidamente distesa in riva al mare a nulla fare, buttato l’orologio, l’agenda e, soprattutto i pensieri (negativi), ho rivisto a volo d’uccello il recente periodo di vita scoprendo che…

…I detti “Chi fa da sè, fa per tre” e “Aiutati che il cielo ti aiuta”, hanno un peso esistenziale ben più ampio di quello che non si possa pensare.

L’abitudine (di solito squisitamente femminile- ma non solo!) di appoggiarsi su chi ci sta intorno- amici, amori, parenti e/o tutti e quanti insieme, è un atteggiamento mentale ed emozionale devastante e terribilmente negativo.

E’ come se portassimo fuori dalla stanza dell’albergo le nostre valigie e le lasciassimo direttamente sul pianerottolo, sicuri che, ci sarà qualcuno che se ne occuperà al posto nostro.

Errore. Non funziona così.

La vita, a testate, bastonate, calci in culo, mi ha insegnato che questo tipo di atteggiamento mentale è un disastro.

E, mi tocca ammetterlo, meno male.

Perchè?

Dal pragmatico al filosofico, ecco i miei motivi:

  1. non avendo nessuno che si occupa di me, ho imparato a fare tetris di borse della spesa in scooter. Sono sempre incazzata quando mi vedo carica come un mulo da soma e mi vien voglia di lamentarmi ma, nello stesso istante, riesco a ridere di me, di come posso essere funambolica e creativa. In secundis, sollevare tutto quel peso, aiuta i miei muscoli a restare in forma.
  2. non appoggiarsi sviluppa “l’arte di sapersi arrangiare” che, tradotto, significa saper chiedere a chi ne sa di più, imparare cose nuove, mettersi in gioco
  3. chi si arrangia da solo, sa come usare meglio il tempo, è, normalmente, più organizzato degli altri, non si perde d’animo, trova la soluzione. Per forza deve farlo, perchè nessuno la troverà per lui.
  4. arrangiarsi, sviluppa capacità cognitive e comportamentali: una su tutte, insegna a gestire la “solitudine”, sia quella fisica, quando non si ha anima intorno, sia quella più sottile/subdola e filosofica: la solitudine esistenziale.
  5. ciò detto, una volta assunto ed accettato che nel nostro passaggio nel mondo siamo soli, arrangiarsi vuol anche dire, godere del momento, prendere il bello dalle cose, saper sorridere di sè e del mondo.
  6. si diventa fini psicologi. Si impara ad osservare, a studiare gli scenari, a riflettere, a non farsi prendere dalle budella, dall’ansia e dal giudizio.

Sapersi arrangiare è la sola equazione per diventare grandi.

Come devono fare gli animali, perchè la vita, dovrebbe essere sempre “secondo natura”.

Questo post è stato scritto in particolare per una persona che ha tutto con sè e dentro di sè, ma che, a volte, si perde e non ci crede.

Con affetto,

Pimpra

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