DIARIO DI UNA QUARANTENA

Siamo alla terza settimana, credo, o poco più, e comincio, mio malgrado, ad abituarmi. A pensarci bene, l’essere umano è ben progettato, questa capacità manifesta di adattarsi ci rende abbastanza impermeabili alle difficoltà. Quindi: mi adatto.

Siamo giunti a fine mese. Passando la vita chiusa in casa, mi sono imposta di provvedere unicamente a: igiene personale, cura della pelle, immancabile riga sugli occhi, una passata giornaliera di lip gloss.

Punto. Nessun altro cedimento all’effimero richiamo della vanità, non perché non vorrei caderci, quanto perché non posso farlo.

In questo nuovo modo di trascorrere le giornate ho già notato come moltissime delle mie abitudini pre-epidemia siano cambiate.

La prima, quella sicuramente molto positiva è che NON SPENDO.

A parte quelle 4 o 5 spese alimentari deliranti che ho fatto a inizio clausura, causa il profondo malumore provato che si è riversato poi sul quantitativo di generi ripetutamente riposti nel carrello, una volta a regime (ricordo che è scientificamente provato che servono 3 settimane per far propria un’abitudine), ho imparato a vivere di quello che ho.

Gli economisti all’ascolto si staranno strappando i capelli che proprio adesso in clima di crisi mondiale, in realtà bisognerebbe spendere e rilanciare i consumi, invece a me è scattato il comportamento inverso, virtuoso direi.

Di sicuro, nelle millemila ore che spendo davanti al pc, sono messa sotto assedio – e lo capisco!- da tutte le aziende che cercano disperatamente di fronteggiare la crisi, buttandosi sull’e-commerce, eppure niente, non mi faccio tentare.

Le giornate trascorse in tuta è come se avessero appoggiato il saio della rinuncia al frenetico desiderio di spendere. Abiti, scarpe, borse, accessori, profumi, belletti, creme cremine oggi, marzo 2020 di coronavirus, hanno perso tutta la loro seduzione su di me.

I primi giorni dicevo a me stessa “Evviva la tecnologia, compro tutto on line, non cambia quasi nulla”, poi, con il passare dei giorni, è come se fosse avvenuto improvviso il risveglio del Maestro interiore a dirmi “Che te ne fai di una borsa nuova? Di un paio di scarpe, di un abito che tanto ti tocca restare a casa?”

Le prime volte ho distolto il pensiero, mettendo nelle varie wishlist i desideri del mio shopping compulsivo, poi, poco a poco, ho cancellato tutti gli articoli ben consapevole che non avevo bisogno di nulla di tutto ciò.

Se mi chiedessero oggi cosa vorrei veramente comprare, risponderei senza esitazione: la mia libertà. Quella di poter uscire a godermi su Molo Audace questa violenta e giocosa bora, i mercatini primaverili di fiori, una passeggiata in riva al mare con mia madre, una cena con gli amici, una milonga…

Questa epocale batosta a qualcosa e a qualcuno servirà. Romperà gli occhiali di tutto ciò che è troppo sterile, della vanità esponenziale di cui ci siamo ammantati, del narcisismo fine a se stesso.

E chissà che le librerie/caffè non torneranno ad aprire i loro battenti, perché sarà bello leggere in compagnia, scambiare parole e pensieri guardandoci negli occhi consapevoli che una delle ricchezze più preziose sta ben incastonata nelle “piccole cose”.

VI ABBRACCIO

Pimpra

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L’INVISIBILE VS L’IMMAGINARIO

Da quando stiamo vivendo l’emergenza sanitaria, assisto e leggo di comportamenti che definire sconsiderati è un eufemismo.

Dalla prima ondata dei folli corsi a svuotare i supermercati temendo chissà quale carestia, probabilmente gli stessi folli sopravvissuti – per ora- al contagio, sentendosi oramai invincibili, rinnegano, con il loro comportamento insensato, l’esistenza del problema.

Questa schizofrenia collettiva che, da un lato, spinge ad informarsi, leggendo e ascoltando tutto quello che viene comunicato relativamente all’epidemia, commentando, dando la propria versione del livello di gravità, dall’altro vede nascere una grande comunità di “supereroi” di quelli che a loro non li riguarda, è tutta una bufala ed altre coglionerie del genere.

Non ribadisco l’ovvio: bisogna contenere il contagio, penso piuttosto a quella leva emotiva che spinge troppa popolazione a comportamenti scorretti.

Mi sono data questa spiegazione: empirica, non basata su alcun dato scientifico, solo su una riflessione personale.

Fatichiamo a credere all’esistenza di ciò che non possiamo vedere con gli occhi, non al microscopio.

Facciamo fatica a fare un atto di fede alla scienza accettando l’esistenza del virus e a comportarci di conseguenza.

Accettare l’esistenza di Covid 19 è come fare un atto di fede all’esistenza di dio.

Mi rendo conto che si tratta di una similitudine estrema ma, da qualche parte, credo ci sia un fondo di verità, altrimenti continuo a non capire.

Vero che siamo ignoranti, fancazzisti, individualisti, superficiali ma se da più parti con chiarezza ti spiegano che una cosa invisibile può fare tantissimo male a te e agli altri, perché rinnegare l’evidenza scientifica?

Un popolo di agnostici della scienza. Incredibile. Crediamo ai cartomanti ma non ai virologi, pazzesco.

Dovremmo trovare il modo di catturare il credo di quelli che, vuoi per consuetudine, abitudine familiare/sociale, sono “fedeli”.

Mi riferisco ai credenti di tutte le religioni mondiali, perché se hanno fatto atto di fede una volta, sarebbe davvero opportuno ampliassero il loro “Ci credo” anche a questa emergenza.

Ma forse sono totalmente fuori pista e le ragioni del dissenso sono altre.

Mi resta forte la convinzione che, se non vedo e non tocco, non ci credo. In fondo viviamo a tempo di social, di vita vissuta su video, a colpi di immagini, esiste solo quello che può essere visivamente condiviso.

Chissà se il virus fosse un pulviscolo color fucsia, grande come micro scaglie di forfora che si appoggiano ai vestiti, chissà se, in queste condizioni, la nostra risposta collettiva sarebbe “CI CREDO! LO VEDO!” o, inventeremmo un’altra teoria del complotto globale… Chissà, l’essere umano, quando non deve, sa essere molto fantasioso…

Pimpra

BF E THANKSGIVING

Marte in scorpione fino al 3 gennaio 2020.

Fastidio, piacere di attaccare briga, sfanculamento beato alle convenzioni, “minni futtu” come se piovesse.

“Fai la brava Pimpra!”.

Tutto ciò detto e premesso, ho le scatole arcipiene di questo “black Friday” di noialtri, ho gli armadi della pazienza stracolmi di questo scimmiottare gli americani nelle loro tradizioni.

MI AVETE ROTTO.

Pochi di noi conoscono le ragioni storiche del “venerdì nero” che chiamarlo così nella nostra lingua ci si accappona la pelle. Checcifrega, sappiamo solo che ci sono gli sconti.

Mi chiedo: dove abbiamo nascosto la creatività tutta italiana che, per favorir l’economia e i consumi, non siamo capaci di inventarci una nostra, originale e vivida supercazzola?

Per gli americani si tratta di un episodio su base storica, leggete qui, che è diventato un evento di consumo entrato nella tradizione di popolo. Ma per noi? Non rappresenta nulla.

Halloween è già incamerato nei costumi, adesso aspetto che pure il Thanksgiving, per la cronaca precede di un giorno il black Friday, diventi una nostra festa popolare.

Siamo noiosi, copioni e stiamo diluendo quelle straordinarie caratteristiche creative che ci hanno sempre reso un paese unico al mondo.

Pensateci.

“Fai la brava Pimpra!”.

Pimpra

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