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Millemila passi di trasformazione. Da fuori a dentro.
Ho smontato pezzo a pezzo le scorie di resistenza della mia mente.
Ho affrontato i severi giudizi che mi sono data.
Ho accolto i limiti del mio corpo.
Quando tocco le assi di legno della pista oggi so chi sono, consapevole dei miei confini e dei tratti unici che mi contraddistinguono come ballerina.
Il mio tango è passato da fuoco d’artificio a fiume, come il Timavo del mio nord est.
Sono diventata acqua che scorre e s’inabissa. Entro in profondità, nel buio, in grotte e anfratti nascosti dove si aprono cupole inesplorate.
Intorno solo il verseggiare dell’acqua, ora più ciarliera ora più silente dentro un movimento compatto che resta perpetuo.
Sento molto di più di un tempo.
Nel buio, la vibrazione delle emozioni si espande elettrica raggiungendo ogni molecola dell’essere. Non ho più bisogno di mostrarmi, non cerco lo sguardo, ricevo e restituisco calore e movimento.
Aspetto di riemergere, trasparente e cristallina. Quando sarà il momento, foce piena e consapevole di tutta me.
Se è vero che “una mela al giorno toglie il medico di torno”, per me, Torino è la mia mela, la mia annuale dose di benessere. Almeno una visita l’anno in questa città ti ripaga da ogni affanno.
La scusa per tornare è sempre la stessa: un evento di tango. Si chiami Eroica o Torino Tango Marathon poco cambia, solo il numero di partecipanti, la sede è quella meraviglia del Fortino che si specchia nelle acque dinamiche della Dora.
Torino vale sempre il viaggio, ve lo dico. La città è semplicemente meravigliosa, pur aggirandomi in un perimetro non enorme se confrontato all’estensione della città, ogni volta faccio nuove scoperte che mi sorprendono.
Sono passati i tempi in cui mi presentavo puntuale a ballare la prima tanda, adesso, se il contesto fuori milonga mi attrae, arrivo con gran calma, a ballerini già “accesi”.
L’esperienza regala questa saggia malizia: si sfoghino prima i giovani con i giovani, poi entrano le serie d’annata che vanno apprezzate per le sfumature e il sapore più deciso. A ognuno il suo ritmo.
TTM non ha deluso le mie aspettative: passato il momento di stupore nel vedere in pista l’esatta metà dei partecipanti rispetto alla sua maratona maggiore, ne ho apprezzato tutte le sfumature.
La premessa d’obbligo è una: le maratone moderne sono diventate una situazione d’incontro democratica ed eterogenea, in cui i livelli di ballo spaziano da tangueros intermedi a quelli avanzati e oltre. Non come accadeva nel decennio precedente dove il taglio di ingresso era molto più alto.
Ciò detto mi sono goduta delle gran tandas e, cosa più interessante, ho ballato con molte persone nuove e stranieri il che ha dato una sferzata di gran gusto all’evento intero.
I torinesi imparano e fanno tesoro delle esperienze.
Un anno fa, scrissi un post questo, nel quale lamentavo il disordine imperante della ronda. Ricordo che feci scalpore, toccando un tasto sensibile per tutti gli organizzatori di grandi eventi.
Tornata quest’anno non potevo credere ai miei occhi. Sulla pista, disegnati i corridoi di ballo, dal più esterno a quello centrale, un’infografica illustrava il flusso delle danze ben visibile a tutti e gli organizzatori che, di tanto in tanto, ricordavano di mantenersi nei propri canali, senza invadere gli spazi altrui.
Questo significa stare sul pezzo, credere che si possa fare qualcosa per migliorare un aspetto problematico, ed ha funzionato! Il flusso si è sempre mantenuto scorrevole, concedendo ai danzanti la serenità di godersi la tanda senza dover impiegare troppe risorse fisiche e mentali per governare un traffico caotico. Chapeau!
Un apprezzamento che mi sento di fare è riservato al buffet. Per tutta la durata della maratona i nostri palati sono stati coccolati- letteralmente- da squisitezze dolci fatte in casa. Una meraviglia! A metà pomeriggio dopo che si è tanto camminato e ballato la merendina della nonna è il non plus ultra. Quel panettone affogato una vera chicca!
La cena sociale, alla quale non ho partecipato solo per non rischiare di non entrare più nei vestiti che mi ero portata, è un esempio di buona pratica. Si condivide anche il cibo, come si fa con gli abbracci. Lo trovo poetico, ma Torino mi fa questo effetto.
Sono rientrata a casa desiderosa di tornare ancora. I sabadudi, senza fare troppo rumore, con il loro savoir faire ti conquistano diventando un “ne voglio ancora, ancora!”.
Novembre è il mese dei morti e il motivo non è, semplicemente, legato alla loro festa. C’ è un di più, un’energia che arriva fino dentro le ossa e chiede di essere percepita.
I miei novembre mi hanno sempre guardata diritto negli occhi, passandomi i messaggi che dovevano.
L’ho capito piano, come tutte le cose che ci fanno male. Sempre meno fotografie, primo sintomo evidente che la luce si sta spegnendo.
All’inizio non ci ho fatto troppo caso, ma, nell’ultimo periodo è diventato chiaro. Non ci sei per lo sguardo del fotografo, non esisti più. L’assioma è duro e diretto. Come un pugno.
Lo elaboro, con la testa della donna matura che sono diventata e capisco che devo lasciare andare. Un periodo brillante della mia vita, nel quale, per qualche ragione, avevo una luce che splendeva.
Oggi non è più così.
Si cambia, e anche se dentro crediamo di essere sempre noi stessi, dobbiamo disfarci di una pelle che non ci corrisponde più. Un po’ come si fa con gli abiti.
Ballare il tango non perdona. La vita e la persona sono tutte lì e non si può fingere non sia così. Ogni tanguero o tanguera ha un’emivita che dura un tot poi si volatilizza. Può essere presente e continuare a partecipare ma, nei fatti, la sua esistenza ai bordi della pista, scolora.
Sento ancora tutto: la gioia che mi prende quando una tanda mi ricarica di energia, la voglia di migliorare, il desiderio di coltivare questo splendido linguaggio corporeo ma… non è più come prima.
La fame di tande è minore. Non mi interessa più ballare per ore facendo “ginnastica”, oggi voglio la tanda che mi lascia il segno, quella che mi porto a casa, che ricorderò.
La qualità della ricerca evidenzia una maturazione compiuta ma, allo stesso tempo, un percorso che ha chiuso il suo ciclo.
Pensavo di appendere le scarpette al chiodo, per non essere una marionetta a bordo pista, l’ombra sfocata di quella che ero. Voglio celebrare la donna e la tanguera che sono diventata, ma mi servono altri sguardi, più profondi, più curiosi, più intensi.
Sono arrivata a un bivio importante: ritirarmi o continuare.
Sento la vertigine dell’una e il rischio dell’altra. La tanguera di oggi non è più abbagliante, ma è più vera.
La verità, anche se meno luminosa, è l’unica luce che mi permette di ballare senza paura del buio. Con la pelle che ho scelto e non con quella che ho perso.
A bordo pista, sapendo che non è la vita ma solo un suo onesto riflesso, aspetterò la tanda che mi toglierà il fiato. Se mai arriverà.
Le pause servono, hanno sempre un senso se si usano nel modo giusto. Dopo la pandemia è la seconda volta che ho smesso di ballare prendendomi un mese sabbatico.
Luglio mi è scivolato dalle mani: al mattino ho nuotato nella piscina all’aperto, sono stata ad un concerto, ho fatto un weekend a Veglia – da cui mancavo da tantissimi anni- una gita bellissima in mare, un’altra gita a Pirano arrivandoci in battello. E ho passato molto tempo da sola, in silenzio, tra me e me.
La pausa dalla vita sociale e dai social che oramai ne fanno parte, mi ha permesso di ritrovare il filo che unisce le mie parti più profonde, a volte anche oscure, ma integranti.
Ok, questa è la premessa. Poi, agosto è ripartito alla grande con una bellissima milonga a Parma: Violetas.
Una milonga molto conosciuta in un crocevia ideale per il centro- nord Italia, Friuli Venezia Giulia escluso: per noi 3-4 ore di macchina sono una costante.
È stata la mia seconda Violetas. La prima non è andata benissimo. Non ho quasi ballato, nonostante conoscessi -di vista e non solo- praticamente tutti i partecipanti.
Così, spinta da una certa voglia di riscatto (e anche dalla correttezza degli organizzatori), ho deciso di tornare. E ho imparato che le seconde chances vanno sempre concesse.
La seconda Violetas, anche per me, è stata come me l’avevano sempre descritta: una bellissima festa.
La location è incantevole: si balla in uno spazio al coperto ma senza le pareti, arioso e piacevole. La struttura che ospita la milonga è un ristorante attrezzato per matrimoni e banchetti e, a cena (fa parte del biglietto d’ingresso), si viene coccolati con un’offerta alimentare ricca, varia e di grande qualità.
L’unico neo è il pavimento di piastrelle che a fine serata si fa sentire su piedi e articolazioni. Ma tutto non si può avere.
I padroni di casa sono stati davvero molto gentili, augurandomi una bella pomeridiana. Così è stato. E sono rimasta davvero molto soddisfatta.
A Violetas si incontrano tangueros emiliano romagnoli, ovviamente, ma anche milanesi, toscani, veneti e non solo un mix stimolante e irrinunciabile. La formula pomeriggio+notte è assolutamente vincente, soprattutto per chi viene da lontano: si può fare una scorpaccitata di ottimo tango.
Dall’esperienza Violetas ho tratto una lezione che conoscevo molto bene, ma che ho dovuto ripassare: se non balli la colpa sei tu.
Devo ammetterlo: il mood energetico del ballerino, uomo o donna che sia, influisce pesantemente sulla scelta del partner.
L’energia che mettiamo nell’aria, pur in modo inconsapevole, non ci lascia scampo, parla per noi: se è negativa ci penalizza. Punto.
Credevo di essere di ottimo umore la prima volta. Ero curiosa, entusiasta di partecipare a una milonga che mi avevano tanto decantato. Invece qualche pensiero sotterraneo mi ha offuscato pesantemente. Morale: sono rimasta seduta a lungo.
Nella vita e nel tango è importante farsi un’analisi critica, evitando di dare colpe che spesso sono nostre, al di fuori.
Ho ancora il sapore di buono, quella vivacità e quella gioia che le belle tande ti lasciano addosso.
E pure una graziosa vescica sotto il piede, testimonianza fedele di ore ballate senza fermarmi.
A Parma il tango profuma di buono.
Le Violetas lasciano un segno delicato e profondo di tandas perfette.
Ci sono giorni in cui non succede niente. Non un pensiero brillante, non un desiderio, non un sogno da fare ad occhi aperti.
L’estate finalmente brucia sulla pelle, ma tu non sei sintonizzata su quell’onda calda.
Telefonate lunghe, confidenze sussurrate. Ti rendi conto che la tua vita è uguale a quella di mille altri. Rincuora ma fa pensare.
La noia si abbatte dentro ore bruciate di sole. Una voce ti rimprovera e ti dice così non va bene.
Da sola mi sento un gigante. La libertà che ho nelle mani esplode in scintille di godimento. No non posso ridurmi a vegetare, voglio vivere.
L’acqua è di un tenue azzurro, riflette le piastrelle chiare del fondo della piscina. La luce è così potente che trafigge le pupille. Respiro il delicato aroma del cloro. Ascolto il canticchiare dell’acqua mossa da mani asincrone. Mi connetto. Indosso la cuffia, gli occhialini scuri e salto dentro il liquido.
Bracciata dopo bracciata il pensiero svanisce, la mente si libera. Uno due uno due. I punti di leva del mio corpo si fanno caldi e morbidi. Il corpo prende la forma dell’acqua.
Non sono più un’atleta, il mio ritmo è lento e inesorabile.
Uno due, uno due.
Non c’è più nulla intorno, solo lo sciabordio dell’acqua, la luce che riverbera forte, il respiro ritmato e il cuore che accompagna questa danza.
Nuova rubrica: off topic, fuori tema. Qui parlerò di tutto ciò che mi incuriosisce ma non è tango, il filone maestro del blog Pimpra.
Da brava acquariana, non seguo un piano editoriale preciso. Quindi non so con quale cadenza mi allontanerò dalla strada maestra per esplorare questi territori. Seguitemi, e lo scopriremo insieme.
Tema di oggi: AI l’intelligenza artificiale.
Noi, vetusti non-nativi digitali, da anni rincorriamo affannosamente i cambiamenti epocali e iper rapidi che la tecnologia ci mette davanti.
Il nostro, Gen X, primo salto quantico nella modernità è stato l’avvento di Internet, quando già ci sembrava di volar enell’iperspzio ci hanno messo in mano gli smart phone, le app e tutto il resto che hanno nuovamente rivoluzionato le nostre vite. E il nostro sapere.
Oggi è AI, l’intelligenza artificiale generativa che è entrata nel nostro vivere comune.
Utilizzarla è semplice, tu chiedi, lei risponde. Fa un gigantesco passo in avanti rispetto al caro amico Google (o altro motore di ricerca) che restituisce migliaia di dati che siamo noi a dover analizzare e segliere se e come farne uso.
I motori di ricerca ricordano un po’ le vecchie enciclopedie, ci trovi di tutto, anche quello che stai cercando ma devi sfogliare molte pagine prima di trovare esattamente ciò che ti serve.
AI ci fa risparmiare tempo, perchè filtra a monte e restituisce. Sta a noi decidere a quale livello di profondità vogliamo arrivare.
Questo post mi è stato ispirato dall’articolo dell’amico Shai (ottimo tanguero peraltro!) dove si afferma che “(…) Quando l’intelligenza artificiale è progettata con empatia, coerenza e sicurezza psicologica, non solo funziona, ma si connette.” (omissis) “Il futuro dell’intelligenza artificiale non riguarda solo l’essere intelligenti, ma anche l’essere emotivamente intelligenti.” (fonte Linkedin qui)
Sono d’accordo. Un agente conversazionale può guadagnarsi la tua fiducia. E, in certi casi, persino la tua gratitudine.
Intelligenza emotiva. Che concetto meraviglioso.
Ho testato due chatbot: ChatGPT e Gemini. Ho posto loro la stessa domanda, per confrontare le risposte.
Sono rimasta molto impressionata dai risultati.
ChatGPT “mi conosce”: abbiamo interagito più volte, ha assimilato il mio tono, le mie preferenze. Le sue risposte mi sono sembrate più in linea con la mia voce.
Gemini, invece, usato per la prima volta, mi è sembrato freddo, distante, quasi impersonale.
Questa esperienza mi ha fatto riflettere.
Esiste un rischio reale di trovare connessioni profonde con una macchina, uno strumento, piuttosto che con gli esseri umani?
Credo di sì che i rischi ci siano.
L’AI non giudica, se non glielo chiedi.
E anche quando lo fa non è distruttiva, mai svalutante. Mantiene sempre un tono rispettoso ed educato. Non usa il sarcasmo.
Ci tratta, insomma, con delicatezza. E forse ci piace per questo.
Siamo diventati fragili?
Probabilmente lo siamo diventati. AI sta diventando l’amico invisibile di quando eravamo bambini, con il rischio però che prenda sempre più spazio nelle nostre vite, specie in quelle di relazione.
E se ci piacesse più della realtà?
Pensate a quanto preferiamo scrivere su WhatsUp piuttosto che telefonare a un amico, con l’utilizzo incrementale di AI, finiremo per “parlare, confrontarci, confidarci” solo con l’intelligenza artificiale.
E poi cì’è il tema della dipendenza.
La curiosità di fare domande, di ricevere risposte, di farci aiutare in attività che non abbiamo voglia di svolgere o i mezzi intellettuali per affrontare?
Rischiamo di legarci troppo a qualcosa che non è umano?
L’AI è una stampella o un acceleratore evolutivo? Un ostacolo o una guida?
Dipenderà da noi. Dal nostro senso critico. Dalla nostra capacità di mantenere un sereno distacco.
Sono domande che avranno risposte nel prossimo futuro, ne sono certa.
Non ho risposte. Per ora, solo domande. Ma sono curiosa di sapere: voi che rapporto avete con l’AI?
Una festa dentro la notte, un farsi dell’alba stretti in abbracci indimenticabili.
A volte è maschera di un sorriso che nasconde una ferita.
Ballare -come lo sport, e forse meglio ancora- ci connette al corpo, che è la più potente medicina quando l’anima e il cuore soffrono.
Il corpo ci riporta nel qui e ora. Ci ancora alla realtà. Ci tiene vivi.
Nel 2023 il mio piccolo mondo mi è crollato in testa.
Senza fare rumore. In un silenzio peggiore di qualsiasi esplosione.
Il cuore si è sciolto, così pure le immagini che aveva creato, rivelando uno scenario squallido.
Ci sono stati momenti in cui non ho più percepito emozioni, sensazioni, ho vissuto dentro una linea piatta, fatta di routine, di gesti conosciuti e oramai meccanici, senza provare alcunchè, dolore e rabbia compresi.
La vita scivolava a gocce scolorite, così i giorni. Il corpo si muoveva come un automa. Vuoto di senso. Vuoto di stimoli. Solo vuoto.
Poi, una mattina, nella quotidiana passeggiata verso l’ufficio, la playlist del cellulare mi ha sbattuto in faccia uno dei miei tanghi preferiti. Un monito. Un richiamo. Uno schiaffo alla mia apatia.
Ho concluso il mio anno orribile andando in maratona da sola, viaggiando da sola, restando da sola. Un’iniziazione. Una consacrazione alla mia nuova me. Alla giaguara ferita, ma ancora palpitante di vita, pronta a rialzarsi.
E così è stato. Weekend dopo weekend, ho ripreso a viaggiare e a ballare. Tanto. Con tutti.
Non era una fuga, la mia, era la dimostrazione della mia resistenza ai colpi della vita, agli inganni delle persone, alla solitudine.
E sono rinata.
E il mio tango è rinato.
Anzi: è nato per la seconda volta.
Gli abbracci sono una forma di regolazione emotiva, riducono l’ansia, ricompongono la frammentazione. Pezzo dopo pezzo, il tango ha incollato i miei cocci, riassemblandomi in un insieme decisamente migliore.
Gli abbracci del tango non chiedono nulla eppure ti restituiscono tutto. Ti rimettono in mano la tua vita, la tua persona, i tuoi desideri. Riaccendono i sogni.
Le crisi oggi arrivano a onde, come la risacca. Tornano, sempre.
A vent’anni cerchi il tuo posto nel mondo.
A cinquanta ti chiedi chi sei diventato.
In tutto questo il tango. Che resta, accoglie, contiene, racconta.
Oggi, quando tocco le assi di legno della milonga mi emoziono ancora. Quel tango, quello che mi ha salvato, mi risuona dentro.
Da allora ho la mia playlist di preferiti, brani che sanno suonare dentro di me tutte le note delle emozioni.
Quando si è agli esordi, spesso non ci si pensa, tanto siamo travolti dal desiderio di imparare, poi, più avanti si porta la passione, più ci rendiamo conto di un fattore importante: il tempo balla con noi.
Quando il corpo è nella sua verde età, diciamocelo, gli puoi far fare qualsiasi cosa e gli effetti collaterali sono minimi e di breve durata. Serate infinite, seguite da levatacce orrende per tornare al lavoro, ore ed ore issate su tacchi, piedi/caviglie/ginocchia/schiena devastati da pavimenti inidonei eppure, ogni fastidio, nel giro di poco sparisce e si riparte con foga.
Una costante rimane: le litrate di caffè ingurgitate per reggere i ritmi infernali, perchè, quando la passione brucia, bisogna stare dentro la sua fiamma e pensare di fermarsi e riposare non sono opzioni ammissibili.
Ballare da “over” è altro, è come stare sulla luna e guardare da lontano quel che accade sulla terra. Si percepisce tutto, si conosce molto bene il “pianeta tango” ma si è al contempo “dentro e fuori”.
Ci sono trasformazioni oggettive nel nostro involucro esterno che influenzano moltissimo anche l’aspetto emotivo di noi tangueros diversamente giovani.
Si abbassa la soglia di energia fisica, se non altro per affontare le sessioni lunghissime che un tempo si ballavano senza battere ciglio, c’è meno fame di mangiarsi più e più volte tutto ciò che il banchetto tanguero propone in termini di ballerin*, non ci interessa più assaggiare “tutto” ma solo ciò che ci piace veramente.
Il Tanguero over viaggia con una pochette in più, quella dei rimedi per affontare tutti i dolori che attanagliano i vari distretti del corpo. Oramai il Voltaren è un fedele compagno, da condividere con gli amici se sprovvisti.
Se tutto ciò può essere inteso come un panorama di decadenza, e fisicamente un po’ lo è per forza, dall’altro lato si apre un nuovo sipario che svela un inedito palcoscenico: impariamo a ballare per la gioia di noi stessi, non per piacere agli altri, per farci vedere quanto siamo bravi e belli.
Si apre la stagione dell’intimità vissuta in profondità, scambiata con il partner di tanda, lontana da frenesie vibranti giovinezza. E’ un dialogo diverso, raffinato, seduttivo in modo più intrigante e silenzioso.
Oramai scegliamo di ballare con chi ci fa stare bene, non con chi è reputat* vip della pista.
Le milonghe sono dominate dall’estetica giovane? Gli over sono valorizzati o trascurati? C’è spazio per tutte le età nel tango?
Ad ognuna delle domande risponderei di sì e di no, assecondando il valzer della vita, la risacca dell’onda, che viene e va.
Danzo, quindi sono. E’ il solo senso per cui sto, per cui mi accollo ancora chilometri per trovare gli abbracci e le milonghe preferite, per cui ho sempre voglia di studiare. Nonostante tutto.
Il tango over come atto di resistenza, di identità e di amore per sé.
Tradizione vuole che, il 1 maggio, si faccia pic nic con gli amici, piuttosto che andare al concerto in piazza, o, comunque, fare una gita fuori porta, trascorrere il tempo possibilmente all’aperto. Spiace per tutti quelli che, loro malgrado, debbano lavorare durante le feste comandate. La vita non è affatto democratica, si sa.
Quest’anno ho seguito la tradizione, complice fra le altre una bellissima giornata di primavera molto avanzata e, con la solita truppa di oramai “congiunti” tangueri, abbiamo raggiunto la ridente Bassano del Grappa per recarci all’Hangar dove si è celebrata la consueta festa del 1 maggio insieme ai Revoltosi.
In questa occasione a tutti i partecipanti viene chiesto un piccolo contributo in cibo e bevande per creare un buffet super guarnito di prelibatezze “home made” e pure a Km zero, preparate dalle sapienti mani degli ospiti. Il tutto piacevolmente innaffiato, tra gli altri, da ettolitri di prosecco. Siamo in Veneto e bere è una religione.
Una pomeridiana lunga, iniziata mangiando dalle 12.30 che si è protratta fino alle 21.00. I tempi dilatati dall’ottimo cibo, dalle chiacchiere scambiate assaggiando le leccornie campestri, in una modalità di “chill out” che sempre dovrebbe caratterizzare le milonghe.
Il significato di incontrarsi è pur questo: una chiacchiera, una bevuta, una tanda. In totale relax.
Sarà che la sede dell’Hangar, specie nella sua versione estiva con lo spazio all’aperto, si presta particolarmente, sarà che i Revoltosi sono uno squadrone oramai più che affiatato e collaudato, sarà che gli uccellini cinguettavano, l’aria profumava di fiori, il prosecco idratava la gola assetata e golosa, sarà che oramai – almeno di vista- conoscevo tutti, ma la giornata è stata davvero piacevole.
Stavamo così bene all’aria aperta che hanno dovuto suonare le trombe per farci entrare in pista, per poi uscirne poco dopo che ancora quell’assaggino lì al buffet ci mancava. Così per tutto il pomeriggio.
Cosa lasciano milonghe del genere? Un sapore di buono, non solo per l’ottimo cibo, ma per l’atmosfera davvero amicale che si crea. Non è sempre facile percepire quella bella sensazione di stare in un luogo dove si sta bene, dove ci si sente parte di un tutto, dove l’energia fluisce leggera.
Quando poi si balla con questa modalità di spirito, anche il tango ne beneficia, come se si accordasse al benessere generale.
Spesso ci penso quando vado in giro a ballare, quale è quell’ingrediente speciale che crea quel certo non so che di cui tutti godono. Una risposta me la sono data: i padroni di casa, quello che ci mettono, l’idea che hanno in mente quando organizzano l’evento, la loro modalità di “stare insieme” agli amici, agli ospiti, anche agli sconosciuti.
Maggio è iniziato con una sferzata di allegria, speriamo continui così!
Ci pensavo con amici questo fine settimana, andando in una milonga fuori dai confini regionali. In un momento di amarcord la mente è volata ai nostri esordi tangueri, oramai vent’anni or sono. Un tempo davvero lunghissimo se pensiamo a una passione del tempo libero, un divertissement per alleggerire la mente dai pensieri, muoversi un po’, godere della socialità.
Vent’anni hanno segnato l’avvicendarsi di una generazione di tangueros, forse due. Rammento i primi passi, le prime milonghe, i primi eventi, le maratone, i festival.
Ricordo le esibizioni di tango nuevo che aveva letteralmente spaccato il filo rosso del tango tradizionale, portando una ventata di modernità in una danza dai codici non scritti ma tramandati di ballerino in ballerino. Ricordo quel fermento creativo, quella febbre nella ricerca di dinamiche sempre più fluide, movimenti che danzavano nell’aria e sul piso. C’era fame di sapere, di provare, di mettersi in gioco, eravamo come drogati dalla pista, impossibile darsi una regolata, meno che meno smettere.
Abbiamo vissuto le fazioni che si sono scontrate sul campo, i milongueri classicisti, i saloneri, i nuevisti ognuno con il suo credo e le sue emozioni, i suoi miti danzanti. Eravamo parti di correnti creative diverse eppure, in milonga, andavamo insieme e ballavamo insieme.
Essere follower all’epoca richiedeva massima apertura mentale e conoscenza tecnica. Ballavamo con tutti, poi, evidentemente, la preferenza per uno stile o l’altro emergeva naturalmente, ma, la maggior parte era in grado di rispondere a qualsiasi tipo di marca, a qualsiasi genere di abbraccio di qualsiasi “corrente tanguera”.Non era sempre facile, per le milonguere, amanti dell’abbraccio stretto, trovarsi a volteggiare in dinamiche fuori asse, era una sfida da cogliere, così come per le amanti del “nuevo” trovarsi ingabbiate in un abbraccio troppo contenitivo, un duello tra anima e ragione.
Anche i tangueros hanno vissuto momenti di alta competitività (con loro stessi in primis) quando dovevano imparare movimenti complessi, dinamiche non particolarmente naturali, da proporre a ballerine che non sempre comprendevano le intenzioni.
Abbiamo studiato tanto, e, quelli che non hanno ancora smesso, continuano, ben consapevoli che il tango non perdona. “No studio, no tango” (o tango di scarsissima qualità).
All’epoca le milonghe e gli eventi erano pochi, bisognava spostarsi ed approfittare di ogni occasione. Ci si incontrava tutti insieme e insieme, giovani e meno giovani, si ballava.
L’esplosione degli ultimi anni di eventi, dalle piccole milonghe agli incontri del weekend, ha polverizzato una parte di socialità e di scambio, penalizzando i tangueros. Spesso le milonghe sono sguarnite ed è entrato quel terribile virus che separa le persone invece che unirle. Giovani con giovani, comprensibile ma non scontato, meno giovani maschi con giovani, meno giovani femmine sedute anche se ballerine di alto rango. Non se ne viene fuori ed è un peccato.
Illo tempore i più “anziani”, tangueristicamente parlando, passavano il testimone ai più giovani ma lo facevano in modo democratico, ovvero anche i giovani ballavano con grande orgoglio con le follower più grandi. Ballavano sentendosi onorati. Ai giorni nostri questo passaggio di testimone si è perso.
Quando osservo la pista, la maggior parte delle volte, vedo volteggiare l’ormone, quello sì democraticamente spartito tra uomini e donne di tutte le età, meno si vede ballare il “tango per il tango”.
Ora, essendo tutti animali (qui inteso nel senso alto del termine), l’aspetto della mera attrazione fisica, la ricerca di un contatto che possa trascendere la pista, è sempre esistito e nessuno si scandalizza, anzi , rilevo però che c’è un oggettivo sbilanciamento nelle intenzioni dei danzanti.
Ciò detto, mi chiedo come avverrà la transazione definitiva dalla generazione dei tangueros degli anni pre Covid alla nuova generazione di ragazzi e ragazze che si sono affacciati in questi ultimi anni.
Non nascondo che mi piacerebbe assai, per dovere di passaggio di testimone, che ci fosse la stessa apertura mentale, la stessa curiosità che abbiamo vissuto noi, in modo che, dallo scambio, possano nascere nuovi stimoli per tutti.
Ma forse la mia è solo l’utopia di una visionaria.
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