
Mi rendo conto che, spesso negli ultimi tempi, mi lamento del lavoro che faccio.
In realtà, lo amo profondamente. Ma come ogni amore che si rispetti, si vivono momenti di fastidio. Che poi passano.
È impagabile l’opportunità che mi viene data, di mettere il naso fuori dell’ordinaria gabbietta, di uscire dai noti confini ed esplorare territori diversi.
Questa settimana è stata la volta di Genova, una città che non conoscevo, non fosse per una veloce visita di tanti anni addietro.
L’ho sentita immediatamente affine, come se un sottile filo la legasse alla cugina speculare del Nord est. Una città di mare e di vento, intensa ed emozionante come la quinta teatrale dei suoi palazzi, segreta ed intima nel rincorrersi dei suoi vicoli a ridosso del porto, sfuggente allo sguardo nel declinare delle scalinate nascoste nella tela delle stradine che si snodano lungo il suo golfo.
Una gioia rincorrere l’ispirazione e farsi portare dallo sguardo, sempre puntato verso l’alto, ad ammirare dettagli architettonici, sfumature di forme e di colori sempre diverse.
Una città nella città, porta aperta verso il mondo, verso il mare e il vento eterni compagni di giochi e di sfide. Accanto a questa, però c’è anche la la Genova ferita, piegata e messa in ginocchio dalle stesse acque, divenute strumento di distruzione in mano alla Natura.
Vedere con i miei occhi gli effetti devstanti di quanto accaduto pochi giorni fa, è stato un colpo allo stomaco.
Vedere la dignità, l’orgoglio e la voglia di reagire dei genovesi, una grande lezione di vita.
Qui, nonostante tutto, non hanno perso il sorriso, si sono rimboccati le maniche ed hanno reagito.
E, come dopo un fortunale, si contano i danni e si inizia la ricostruzione.
Chapeau.
Pimpra
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