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Chi è assiduo frequentatore di eventi, specie di quelli più lunghi, da weekend come le maratone, i festival, sa benissimo che, tra le ciarle a margine delle tandas, ci sono sempre i commenti più disparati sui partecipanti.
“Quell* è brav* ma non mi invita, quell’altr* se la tira e balla solo con i suoi, non capisco perchè quella (i commenti sulle donne, espressi dalle donne, sono sempre i più tremendi) balli così tanto che è una principiante, ovvio perchè è giovane e figa e ha pure le tette in mostra (ecc ecc)” vi risparmio.
Una sorta di analisi sociologico/comportamentale/sputtanatoria dei tangueros/as in pista.
Non si dovrebbe mai cadere dentro questo genere di trappole perchè tornano indietro come un boomerang.
Innanzitutto ognuno di noi partecipa per stare bene, per divertirsi, per ballare, per socializzare, chi anche per trovare una nuova fiamma. Quale che sia la motivazione l’imperativo categorico rimane uno: godersela. Vivere il momento della socialità con gaia apertura, con animo e cuore leggero. Così facendo, ovvero impostando il proprio asset mentale su pensieri positivi “Oggi starò bene, ballerò bene, mi divertirò” la modalità energetica si predispone correttamente, facendoci diventare sorridenti, aperti verso l’altro senza giudizio, senza ansia, senza paure senza sentimenti di frustrazione e men che meno senza retropensieri negativi.
Provate, funziona!
La PNL insegna che per il nostro cervello realtà e immaginazione sono la stessa cosa, il cervello non distingue i pensieri prodotti da situazioni “reali” e quelli solo immaginati. Provate ad andare in milonga, la prossima volta, immaginando che ballerete assai, godendo assai. Vi stupirete dei risultati!
Troppo spesso ho sentito donne, solo perchè nell’attesa di una tanda mi trovo tra il pubblico femminile, lamentarsi per questo e quello, criticare questo e quello per poi ritrovarsi inchiodate alla sedia che quasi nessuno si accorgeva di loro.
Siamo tutti animali sociali e, specie in contesti legati al ballo, andiamo alla ricerca di leggerezza, desideriamo non pensare ai problemi, al lavoro e a tutto ciò che nella nostra vita è difficile e pesante.
Parola d’ordine: leggerezza.
A chi mi ribatte “io ci vado in milonga con i bei pensieri ma poi nessuno mi si fila” rispondo che crede di avere bei pensieri, invece c’è un forte rumore di fondo legato ad ansia, preoccupazione, frustrazione, paura dell’insuccesso e queste sensazioni, malgrado ciò che crediamo, vengono percepite all’esterno, producendo effetti contrari a quelli sperati.
Mi sto perdendo in questo pippolotto, ma era tanto che non ne scrivevo uno, per esortare TUTTI a vivere pensando al lato positivo dell’esistenza, sforzandosi di trovare ogni piccola scintilla di bene. In sala da ballo i risultati saranno immediati, lo garantisco, e porteranno una sferzata di benessere di cui tutti abbiamo bisogno.
Teniamo sempre a mente che noi meritiamo di essere felici.
La giornata grigia e piovigginosa di dicembre, un lunedì per giunta, non aiuta a tenere gli occhi aperti sul mondo. Sono davanti al pc dell’ufficio con il corpo, solo con quello.
Sto inseguendo pensieri colorati, girandole di emozioni vibranti, spicchi di allegria scanzonata che mi hanno accompagnato durante il weekend bolognese.
L’Emilia Romagna è sempre un bel stare. Quale che sia l’ingrediente segreto non so di preciso, ma azzardo nel dire che sta custodito negli abitanti. A Bologna c’è casa, quella che sa di tortelli, di quintalate di carboidrati che ti mettono allegria per forza, di popolosa gioventù che i miei occhi non sono abituati a trovare.
I colori stessi della città, o quantomeno del suo centro, sono caldi e terrosi, a differenza dei toni ghiacciati del neoclassico di casa mia, all’estrema periferia “dell’impero”.
A Bologna si è, in totale pienezza.
Ho rimesso piede su un parquet dopo molto tempo, con l’anima in subbuglio, in un misto di adrenalinica emozione e un pizzico di ansia. Ho legato alle caviglie i laccetti delle scarpe preferite, ritrovando, nell’affacciarsi mogano dello smalto passato sulle dita, un punto di vista familiare.
Ero pronta e tremante, vibrante di una vita rimasta troppo a lungo come sospesa.
Le prime note sono entrate potenti e, senza pensarci, una mano amica mi ha condotto nei solchi di quella musica grassa di argilla e di stelle, e il mio corpo, come se nulla fosse, si è connesso.
Noi che abbiamo questo potente alleato nella nostra vita, dovremmo sempre ricordarci di onorarlo. Noi balliamo il tango, siamo dentro il flusso della sua vita che scorre, sempre, anche se a volte non la vediamo, come un fiume carsico.
Si è mostrato davanti a me, tremate e sudata, mi ha rincorso, abbiamo giocato insieme, a prenderci a nasconderci, insieme abbiamo suonato una nuova musica, la nostra, accompagnata dai diversi abbracci e dalle orchestre che creavano un prisma colorato di gioia.
Questi i doni che mi porto a casa, ebbra di me e di lui, di questo assurdo e fenomenale tango meraviglioso che mi ha sua. Per sempre.
La mia magia assoluta si chiama Amarcord. Perchè solo chi ama veramente, sa come si crea amore.
Grazie Antonella Fabio e crew per questo nuovo dono.
Alla sera, mentre allestisco il desco felino e umano, mi diletto ad ascoltare “La Zanzara” di Cruciani e Parenzo. La deriva erotosessuale della trasmissione radiofonica, racconta sicuramente uno spaccato sociale che, volenti o nolenti, non possiamo fingere non esista.
Personalmente ritengo la sessualità di ognuno uno dei campi di maggiore espressione della libertà soggettiva nel senso che – fatta la premessa dell'”accordo tra le parti”- tra le lenzuola ognuno è padrone di viversi la cosa come meglio lo aggrada.
I tempi moderni, però, hanno portato una ventata incredibile di nuove possibilità. Se torno con la mente agli anni 80, la “formazione” dei giovani attraverso cosa avveniva? Esperienza reale, confronto con i coetanei, “giornaletti”, filmetti, credo nulla più.
Il massivo ingresso nelle nostre vite della rete ha esploso di possibilità il reperimento e lo scambio di sessualità.
Da adulta non mi pare ci sia nulla di male, non fosse che – forse- manca una certa cultura di base e un certo discernimento di fondo, ma non voglio di certo fare la bacchettona.
Arriviamo all’oggi, sono rimasta incuriosita dal fenomeno di Onlyfans, sito sul quale, ciascheduno di noi, può offrire al mercato globale una quota parte o l’intero di se stesso, declinandolo nelle mille mila sfumature che la sessualità e l’erotismo consentono, guadagnando, pare, cifre considerevoli.
La Zanzara, nelle interviste che propone quotidianamente, riferisce di giovani che sono entrati in questo mercato traendone immense soddisfazioni economiche.
Riesce incredibile pensare che esistano nel mondo persone interessate all’acquisto di contenuti virtuali di ogni sorta, ascoltate la trasmissione per farvene un’idea.
Il dibattito si accende tra i “liberali” e i “conservatori”, tra chi depreca l’uso del corpo a fini commerciali, chi – al contrario- non ci vede nulla di male.
Se fossi un genitore, e meno male che non lo sono, immaginare i miei figli impegnati a fare soldi su un sito del genere, mi creerebbe non poche perplessità, lo confesso. Ma, dal momento che non amo chiudere la mente, immagino che anche questa, possa divenire una “professione”.
Se proprio una persona sente delle pulsioni che la portano ad avvicinarsi a tale mondo, immagino che sia decisamente meglio diventare i manager di se stessi piuttosto che dipendere da altri, con le terribili conseguenze del caso. A sentire gli intervistati, avere un proprio profilo sul sito, li impegna a costruirsi anche un “piano editoriale”, a monitorare l’andamento del mercato di genere, insomma ad essere totalmente proattivi in questa attività.
In fondo, penso, che male c’è? Come tutte le leggi di mercato dove c’è forte richiesta, nasce l’offerta.
Ci stiamo perdendo qualcosa? Difficile dare una risposta che non poggi esageratamente sulle nostre tradizioni, sulla nostra morale, difficile essere imparziali il giusto per esprimere una riflessione equilibrata.
La sola cosa che mi perplime è la ricerca di strade “facili”. Penso a coloro che investono risorse e tempo sui social cercando di farne una professione (diventare “influencer”), senza prima munirsi degli strumenti culturali necessari e non mi rieferisco unicamente a Onlyfans.
La forbice tra le generazioni si evince particolarmente in questo: prima dei millenials si era costretti al lavoro (o intellettuale o fisico) e al sacrificio nella costruzione di una propria identità professionale anche perchè non esistevano queste possibilità alternative.
Ad oggi mi chiedo se siamo noi “anziani” ad avere perso delle occasioni per esprimere e realizzare al meglio noi stessi, oppure sono i giovani che, proiettati molto pesantemente in un mondo estremamente virtuale e non sempre virtuoso, bypassano certe esperienze importanti per la loro evoluzione personale.
Nella società moderna, così fluida, veloce ed effimera, sono sempre più carenti alcuni tratti fondamentali del vivere collettivo, tra questi cito l’empatia.
EMPATIA= dal greco En, dentro; PATHOS, sentimento.
Stamattina ho accompagnato l’anziana madre a un controllo medico per validare la terapia che sta seguendo da un mese e che le procura qualche fastidio.
Si trattava di una visita “al buio”, nel senso che il medico non sapevamo chi fosse, solo la specialità: neurologo.
La madre, come moltissimi altri pazienti triestini e non, ha perso quel faro di umanità, competenza, disponibilità che era la compianta prof.ssa Rita Moretti e, come molti altri, stiamo cercando di capire come proseguire l’opera iniziata dalla dott.ssa tristemente e improvvisamente deceduta.
Mia madre,
Mia madre, ça va sans dire, non si è occupata del “post Moretti”, non essendo capace di farlo, non fosse per l’età avanzata, sicchè sono stata io a mettermi al telefono per trovare il filo iniziale dell’intricata matassa.
Le telefonate si sono susseguite in una serie di scivolamenti verso il non detto, alla mia domanda “Ma la dott.ssa aveva dei collaborator* fidati?” , nessuno che si fosse sbottonato, la mia non era una richiesta perentoria, solo la ricerca di un suggerimento, un consiglio: “Mettetevi nei miei panni, a chi chiedereste per vostra madre?”. Niente, tutti, dagli infermieri di reparto ai segretari del primario della clinica ospedaliera, abbotonatissimi. Mi suggeriscono di chiedere una visita, cosa che faccio ed eccoci.
Ci accoglie un medico donna, dall’aspetto gentile, il seno florido che rimanda immediatamente alla “madre” archetipale, mi sembra bene. Parte la domanda a bruciapelo a mia madre “Lei perchè è qui?” e lei, ansiosa di prima generazione, perde l’uso della parola e diventa tutta rossa, fin sotto alla mascherina. Faccio per rispondere io, per aiutarla, e perchè la visita di controllo e verifica terapia era un’idea mia ma il medico mi blocca con fare severo.
La madre, sempre più rossa, comincia a biascicare qualcosa, facendo vieppiù innervosire il medico. Al che mi intrometto e spiego la ratio della visita.
Rimprovero n. 2: non dovevamo andare lì, che il farmaco da controllare lo dispensano solo centri specializzati particolari che hanno un registo e che lei non poteva fare nulla.
Mia mamma tramortita. Io, piuttosto imbizzarrita, avrei voluto rispondere per le rime, assecondando il movimento delle mie emozioni, ma sono stata saggia e, invece di inveire contro un simile trattamento, mi sono scusata dicendo che, per chi sta – come noi – dall’altra parte della scrivania, non è affatto scontato trovare i percorsi scorretti perchè non è il nostro mestiere.
La dott.ssa dalle grandissime tette, evidentemente mossa a compassione, depone un poco le armi e afferma che la visita l’avrebbe fatta comunque. Ed è stato così, e pure senza fretta.
I test verbali somministrati a mia madre dalla dottoressa dal corpo accogliente ma dalla parola tagliente, hanno vieppiù accresciuto lo stato di stress, specie alla domanda “Quanto fa 100-7?”: panico, mia mamma paonazza, in difficoltà come un uccellino caduto dal nido, alza la voce e quasi urla “Non lo so!”.
Ero a disagio per lei, perchè i numeri ci sono sempre stati osptili, ma un conto è cercare di gestirli in stato di tranquillità, altro è con lo stress da interrogazione.
Concluso il test verbale e fisico, la neurologa ha stilato un’approfondita anamnesi e ci ha indirizzato nel posto giusto. Amen.
Però così non si fa.
All’uscita la madre era ancora stremata dalla prova, in imbarazzo per la brutta figura (soffre di un serio disturbo della memoria), incavolata per essere stata trattata con “severità”.
Capite quanto sia importante nella vita, specie nelle relazioni, entrare in “vibrazione” con l’altro, percepirne lo stato d’animo, specie se si esercitano professioni che entrano prepotentemente a contatto con le emozioni, i sentimenti dell’altro?
Di sicuro il rispetto dei ruoli, va portato in entrambe le direzioni, non possiamo pretendere empatia se, noi per primi, non la offriamo.
All’uscita dall’ospedale l’ho presa sottobraccio rassicurandola, dai mamma adesso abbiamo capito da chi andare e lei, con gli occhi umidi di commozione, ha risposto “Mi manca la mia Rita, le volevo davvero bene”.
Questo è il lascito che dovremmo essere capaci di scrivere nelle persone che ci hanno conosciuto, indipendentemente da chi siamo, cosa facciamo, solo perchè siamo essere umani evoluti.
Luoghi desertici erano già nei miei occhi e nelle mie narici, il pianoro dell’Iran, l’Africa settentrionale ma il Sinai è stata la mia prima volta.
Un viaggio verso il basso, in tutti i sensi, direzione sud e sotto l’acqua.
Fortunatamente gli amici mi avevano messa in guardia: Sharm El Sheikh esiste solo per fare le immersioni. Il messaggio era chiaro: luogo completamente turistico e vabbè, ma ero certa che qualcosa di locale, di tipico, l’avrei trovato. Invece no.
Scesa dall’aeromobile attendevo di percepire il “profumo del luogo”: nulla. Niente che scrivesse le mappe degli odori dei paesi visitati, probabilmente il clima torrido, secco e ventilato, elimina qualsiasi traccia.
L’areoporto dista pochi KM dalla zona urbana che si sviluppa a margine di lunghe strade, case, complessi alberghieri, ogni costruzione è bassa, di forma semplice, con piccoli guizzi orientaleggianti, come alle finestre. Il bianco domina, così come un bel ocra aranciato della sabbia terrosa della superficie che fa da contrappunto al nero pece dell’asfalto.
Il primo tuffo è stato esaltante. Immergersi in un acquario, dai mille pesci colorati, dai coralli di forme e dimensioni incredibili. Il mare, dopo la barriera, si inabissa velocemente, provocando, a volte, la sensazione di vertigine che svanisce immediatamente lo sguardo rapito da un colore, da una forma, da un pesce particolare.
Lo squalo aveva altro da fare, per mia fortuna, così pure il pesce balestra che pare essere molto aggressivo se gli invadi il territorio mentre si prende cura delle uova. Per il resto ho salutato Nemo, nuotato con deliziosi banchi di pesci a righe, pesci dalla livrea di un azzurro elettrico, ho pinneggiato con maestosi napoleone, ho dimenticato perfino che stavo in acqua.
Il mar Rosso è salatissimo, le mie povere ascelle lo dimostrano con la pelle talmente tanto secca da squamarsi vistosamente.
I lampioni delle strade sono alimentati ad energia solare, che pare un’evidenza lapalissiana, peccato che la sabbia del deserto circostante sporchi gli specchi e la manutenzione della pulizia sia troppo costosa, sicchè spesso restano spenti.
Un discorso a parte merita la popolazione locale. Gli egiziani o, comunque, i medio orientali, sono diversi dagli “arabi” che ricordavo. Ho visto ragazzi e ragazze molto belli, dai fisici asciutti, contrariamente a quanto ricordavo di quelle popolazioni.
Le donne, se di fede musulmana, sono costrette ad indossare improbabili “costumi” che le coprono – letteralmente – da capo a piedi, capelli compresi ma le poverine, non indossano seducenti tute aderenti alla cat woman, per intenderci, bensì palandrane nere di lycra che sotto quel sole cocente con una media di 35° all’ombra ve li raccomando. Eppure, a guardarle, sono come delle principesse: il volto truccato, le sopracciglia sempre ben definite, occhi penetranti, labbra carminio. Tutto ciò che non può essere svelato, ma solo immaginato del loro corpo e della loro bellezza, esce sul volto.
I bambini, quanti ne ho visti! Amatissimi dalla popolazione, rispettati, vezzeggiati. Le famiglie ne hanno in media 3, di solito in scala ravvicinata.
I venditori. Sono sopravvissuta agli attacchi seriali dei venditori della qualunque che, con la tecnica dell’esasperazione, alla fine escono vincitori nel duello con il potenziale cliente.
La parola magica che ti rivolgono sempre è “no stress” salvo poi iniziare immediatamente l’assedio a suon di parole per convincerti a comprare qualcosa.
Sono bravi con le lingue. Il russo impera, esageratamente, anche sulle insegne dei negozi e sui cartellini delle merci solo che, di questi bui tempi, di russi colà se ne sono visti ben pochi, e lo scettro dei turisti presenti è tornato in mani italiane.
Ho mangiato il migliore melone di sempre e sguazzato nella gelatina di frutta che mi ha riportato agli anni verdissimi dell’infanzia.
Come ogni turista che visita l’Egitto il pegno in diarrea è una moneta che tocca pagare. Per fortuna mi sono organizzata, potendo gestire in tempi velocissimi e con minimi effetti collaterali, il “marchio del faraone”.
Per i nordici il fattore protezione solare 50 è obbligatorio. Sono riuscita comunque a prendere un’insolazione sulla schiena e rientrare dalle ferie colorata come un latte macchiato, praticamente pallida come sempre. Ma è stato bello provarci, molto bello!
Ci tornerei?
Di sicuro, magari in una zona meno turistica, se esiste!, ma con l’obiettivo di fare le immersioni e fotografare quel paradiso di fondali.
Il profumo dei tigli in fiore mi accoglie nei diversi passaggi cittadini che da casa mi portano in centro, segnando senza dubbio l’arrivo dell’estate.
Il mio naso si perde nel loro aroma dolciastro come fossi un insetto alla ricerca del miglior nettare, mi inebria profondamente mettendomi in una dimensione dello spirito che può variare dalla pura estasi olfattiva, proiettandomi in un salto nella macchina del tempo alle estati della fanciullezza, o, semplicemente, mi rallegra facendomi sorridere.
La fioritura dei tigli dura solo qualche settimana. Quando inizia la fase più matura e si intravvedono dei piccoli bozzoli forieri di semi futuri, mi risveglio dal mio sonno profumato rendendomi conto che l’estate è già qui e con essa le imminenti vacanze, il mare aspetta. Il costume pure.
Faccio i conti con la trascendente mutevolezza della Natura e con l’incessante fluire del Tempo.
Negli alberi gli anni si leggono nei cerchi concentrici che si creano nel loro tronco, per me è lo stesso anche se l’anno in più si posiziona, a seconda, in diversi punti del corpo.
Una volta è la spalla destra, il collo, il ginocchio e mi accorgo di non riuscire a leggere le etichette senza aiuto e così via, una serie di modifiche sostanziali della forma che segnano indelebilmente anche la sostanza.
Non è sempre una passeggiata di salute accettare mentalmente di essere in grado di fare la spaccata frontale ma non potersi godere una corsetta balsamica, piuttosto che una camminata vivacissima perchè il bastardissimo il nervo sciatico al momento lo impedisce.
Un corollario di piccoli fastidi che scoprono come una matrioska il degrado del corpo mettendo a nudo l’anima, basita, che deve prenderne atto.
Accanto a questo fastidio concettuale rappresentato dall’invecchiamento si svela al contempo un interessante risvolto della medaglia: la resilienza cementata a saggezza che, in realtà, permette agevolmente di superare gli ostacoli.
Si tratta di spostare semplicemente la lancetta su uno stato di maggiore e perdurante equilibrio, tra ciò che si fa e ciò che si pensa e, soprattutto, si impara a pensarsi bene, si apprende a volersi bene, ad apprezzarsi per ciò che si è diventati.
Forte dei miei pensieri positivi, m’incamminavo a fare delle commissioni gestendo l’acido lattico dell’allenamento del giorno prima, sorridendo ad ogni passo quando le fibre di qua e di là, in alto e in basso si lamentavano per qualcosa. Il corpo urla la sua esistenza, obbligandoci a tenerne conto, a curarlo, a proteggerlo come nessuno mai.
Diventare grandi, in fondo, ci costringe alla più grande dimostrazione d’amore, quella che dobbiamo a noi stessi.
Sto per scrivere un concetto che sicuramente cozza con quanto espresso tempo addietro, mi prendo il sacrosanto diritto di cambiare idea ma, preciso, mi piacerebbe avere uno scambio di opinione con altre donne.
Ho visto ballare il tango da tangueras in infradito, scarpe da ginnastica, scarpettine da jazz, salva piedi insomma senza indossare le tradizionali calzature con il tacco e il loro tango poteva esprimersi come se nulla fosse. Fluido dalla terra al cielo, sgorgare nel loro abbraccio, risplendere nel volto.
Anche a me è capitato di darmi a pazze danze indossando inappropriate sneakers, quando non sono stati addirittura gli anfibi, l’ho fatto, ma si trattava di puri attimi di follia o di necessità mediche.
Mi sto convincendo che la tanguera è anche i tacchi che indossa.
Quasi tutte le balleirne in erba, una volta scoperti i meravigliosi sandali dall’altissimo stiletto, sono cadute nella trappola di volerli indossare come a sancire con la loro altezza l’ingresso nel mondo della milonga. Ex (danzatrici) classiche a parte, dotate del famoso “collo del piede” formato dalla durissima disciplina, per la quasi totalità della platea di praticanti la nuova arte, i tacchi altissimi sono stati una vera e propria tortura, salvo casi rarissimi, conducendo le addette a notevole sofferenza fisica delle estremità.
Studiando e crescendo nel tango, ognuna di noi ha saputo fare i conti con i suoi limiti adattando il tacco alla ballerina e non il contrario. Aggiungo: meno male. Meno armadi appesi alle braccia del povero leader, maggiore dinamica, equilibrio e asse mantenuti con più costanza.
Ma il punto della questione non è questo.
Il tacco per la tanguera è il catalizzatore della sua “giaguara” interiore, dentro e fuori dalla pista. Essere oramai capaci di portare i tacchi e camminarci veloci, come si trattasse di indossare sneakers, perchè il corpo ha appreso l’arte di cercare il suo asse anche quando la superficie d’appoggio è più ridotta, rende la donna più sicura di sè, più elegante nell’incedere, più sexy se lo desidera.
Fate questa prova, amiche tanguere, nel corso della vostra giornata, passate da scarpe basse a un paio con il tacco e poi mi raccontate come vi sentite cambiare dentro, come se quella donna sempre presa da millemila cose da fare, pensare, organizzare, ad un tratto si fermasse mostrando attenzione a se stessa.
Un vero miracolo, una dedica d’amore rivolta a noi stesse.
E’ primavera, il cambio di stagione degli armadi è imminente, il cambio di attitudine mentale è atto dovuto: apriamo le porte a tutte le sfumature possibili delle donne che sappiamo di essere.
Questo lunghissimo periodo di astinenza tanguera ha tolto moltissimo, specie nel corpo, e nello stesso tempo ha fatto ordine in certi pensieri arruffati, in alcune credenze sbagliate facendo spazio a una profonda e vivida riflessione.
E’ facile intuire come il corpo risenta dello stop.
La tradizione popolare argentina deifnisce i movimenti dei tangueros come la cosa più naturale del mondo “bailar el tango es como caminar“, omettendo il trascurabile dettaglio che si tratta di una camminata ad elevatissimo indice di complessità. La scelta soggettiva sta nell’altezza in cui si vuole posizionare l’asticella della propria goffaggine.
Non aprirò il mio sermone su quanto sia fondamentale dedicarsi alla “long life learning tanguera“, assioma fondamentale di ogni soggetto danzante: non si deve mai smettere di studiare per migliorarsi o, semplicemente, per non peggiorare (troppo), ne va del gusto che si può offrire e ricevere nel corso della milonga.
La sosta forzata mi ha costretta a prendere atto di taluni aspetti che non mi ero mai data il tempo di analizzare, di assumere e di metabolizzare poi.
Nei discorsi sul tango si parla sempre dell’abbraccio, uno dei cardini di cui si ammanta la connessione, magica parola che ci proietta immediatamente dentro il cuore sacro del tango.
Questi mesi protratti di buio e di silenzio però, mi hanno offerto una chiave di lettura che non avevo trovato in precedenza.
IL TANGO E’ LO SPECCHIO.
Un tempo, il mio asse corpo/sensazioni, era tarato per dare una risposta immediata all’abbraccio che ricevevo. Abbraccio morbido=”devo essere più flessuosa e docile possibile”; abbraccio presente ma non costrittivo=”yuppy qui si va via dinamici”; abbraccio destrutturato=”povera me!”, abbraccio stretto che non respiro=”fatemi uscire subito dalla gabbia!” e così per le millemila sfumature dell’abbraccio ricevuto e, spero, donato a mia volta.
Io ero una ballerina “fuori”, nel senso che cercavo un dialogo verso l’altro, a volte perdendo di vista chi fossi o, se per qualche ragione non riuscivo ad andare verso, diventavo una ballerina “aggressiva”, prendendomi ciò che desideravo, proponendo assertivamente al leader, il quale, se molto evoluto in termini di preparazione e apertura mentale, accoglieva con piacere questo impeto. Ma sempre di “impeto” si trattava. Azione/reazione.
Questi lunghi mesi di buio mi hanno costretto dapprima, insegnato, poi, a riconsiderare tutto, me per prima.
Mi appare chiaro, oggi, che essere soddisfatta del “mio tango”, non significa prioritariamente aver “ballato bene” in senso “fisico”, ma piuttosto aver ballato bene con la parte più vera di me che balla con l’altro.
Ho capito che mentre ballo il partner è il mio specchio, un medium che riflette me stessa, aiutandomi a vedere, a sentire, a vivere le emozioni: la paura (di sbagliare il movimento), la dimensione del mio abbandono (quel lasciarsi andare totalmente all’ascolto), la frustrazione di percepire gli ostacoli che inconsciamente frappongo per giustificare un “non riesco a farlo/sentirlo, a farlo/sentirlo come vorrei, a farlo/farlo sentire bene”.
Ho compreso che lo specchio mediato dall’altro, il più delle volte in modo inconsapevole, è un bene preziosissimo. Posso e devo fare i conti su ciò che non desidero affrontare, devo guardare e starci in quella sensazione sgradevole, per capire che sono anche quella tanguera, quella donna.
Accettato il rimando, il tango si libera e diventa espressione leggiadra, passionale, fluida, timida, delicata, forte, allegra, struggente, melanconica, dolorosa … di ciò che siamo.
Mi ci sono voluti tantissimi anni per arrivarci, per capire fino in fondo l’impatto di questo ballo immenso che vive dentro di me e sa aspettare che io torni. Sempre.
Oggi i ricordi di Fb si spingono molto lontano nel tempo, a questa immagine di 10 anni fa.
Una me rispettosa del codice della milonga che chiedeva di indossare qualcosa di verde, in onore dei musicisti, il Duo Ranas.
Il verde è il colore che indossano le donne sicure di sé, quelle che credono/sanno/sono/si vedono belle. Rovistando negli armadi per prepararmi alla festa, non ho trovato verde da nessuna parte.
Ricordo che anche all’epoca, mi venne questo pensiero in testa: perché non ho mai considerato il verde? Mi piace pure, nelle sue diverse sfumature, intensità, più caldo o più brillante o freddo come il ghiaccio.
Io non ero all’altezza di vestirmi di verde, eh no.
La milonga fu un successo strepitoso: mi divertii tantissimo, ballai a fondere la suola delle scarpe, il concerto fu potente e magnifico. Una serata magica.
Chiesi la foto che vedete a un amico tanguero, ovviamente mi misi in posa, scimmiottando in modo assolutamente poco credibile, per non dire grottesco, la posa di una donna fatale, una che con il verde ci va a nozze. Sono passati 10 anni e, tanda dopo tanda, quella piccola donna in me è cresciuta e vive felice.
La Giaguara (dentro e fuori la milonga), non deve per forza indossare completi leopardati, tacchi a spillo H24, rossetto rosso carminio o mattone notte, per essere una vera Giaguara.
Si tratta di una dimensione dell’anima, di uno stato di totale riconoscimento della donna UNICA che si è.
Il tango, questo mi ha dato, a me che ho sempre avuto pudore di mostrarmi, non pensando mai di poterlo fare temendo di essere ridicola.
Poi lo stop della pandemia, due anni lontana dagli abbracci così cari, dalla musica capace di smuovemri sempre qualcosa dentro, lontana dal quel gioco di seduzione che si esprime sulla tenuta di uno sguardo, sulla mirada convinta, sicura, sorniona, giaguara.
Mi manca e pure io manco a me stessa.
Le tonalità del mio armadio sono molto coerenti, perchè mi piace quello che piace a me, ma il verde, nuovamente, manca.
E’ decisamente giunta l’ora di andarmelo a riprendere. Costi quel che costi, perchè la vita va avanti. Sempre.
Pimpra
PS: questo post stava nelle bozze da tanti mesi, non è frutto di un impulso odierno. Solo le ultime frasi lo sono, questo per dire che faccio molta fatica a sorridere e a fare finta che la vita di oggi sia uguale a quella di soli 3 anni fa.
Ma ho imparato che continuare a vivere, a resistere, ad essere resilienti è una dimensione dell’anima che dobbiamo nutrire perchè questo ci stanno insegnando i tempi: la vita cambia in un istante, senza preavviso.
Il desiderio irrefrenabile di andarci mi è arrivato inaspettato, un giorno di tarda estate, capitando per caso nella bacheca di una conoscente. Gli occhi hanno avuto un sussulto emozionato che si è riflesso immediatamente sul cuore: dovevo visitare quella città.
Complice il weekend del mio compleanno, invece del solito pacchetto infiocchettato, ho ricevuto una mail con il biglietto aereo e l’hotel. Stavo per svenire di felicità davanti al pc.
Ho volato con gli olandesi di KLM, una compagnia aerea che non mi ha mai deluso, sin da quando, in tenera età, vi volavo tra Medio Oriente e Africa, resta tra le compagnie aeree preferite.
L’aeroporto di Copenhagen mette immediatamente il viaggiatore in una dimensione di piacevolezza, non è rumoroso, luce gradevole ovunque e il pavimento di legno. Non potevo credere ai miei occhi. Molti spazi dove rilassarsi e familiarizzare con il famoso “Hygge”.
L’albergo in centro, una chicca in puro spirito danese, legno, luci, sedie particolarissime, caminetto, personale giovanissimo e super gentile, camera dai colori neutri, caldi e rilassanti. Mi sono sentita immediatamente a mio agio.
La bicicletta, per i danesi, è come lo scooter per i triestini: fondamentale. TUTTI la usano, non ne ho mai viste così tante, così “bizzarre”, tutte insieme. Utilizzarle in città è semplicissimo evitando la produzione di smog, inoltre si pedala in tutta sicurezza perché ogni superficie stradale prevede la corsia dei ciclisti, con semafori e segnaletica dedicati. Si raggiunge in poco tempo, ogni angolo della città, inoltre, si può agilmente posteggiare il mezzo ai supporti, o, quando occupati, si lascia la bicicletta in fila, senza tema che venga rubata, danneggiata o altro. Mi è sembrato un sogno.
Altro vantaggio del turismo su due ruote: si evita la psicofollia delle foto, si pedala e si guarda, si assimila il paesaggio e si apprezza senza distrarsi, senza il bisogno imperante di condividere sui social, si sta, si vive, si gode del momento, si pedala. Evviva.
Copenhagen sembra costruita a dimensione uomo, non è una città che cannibalizza, ma piuttosto accompagna. Ci si può fermare nei caffè, ci sono tantissimi luoghi in cui concedersi uno spuntino, spazi esterni da vivere, certo solo nei mesi caldi, altrimenti ogni luogo pubblico offre, comunque, la possibilità di una sosta.
Sono stata rapita dalla fusione architettonica di antico e moderno, dove il design dalle linee essenziali, dialoga e si armonizza al contesto urbano precedente. Il “diamante nero” merita una visita, non fosse altro per apprezzare l’affaccio sul canale della struttura e il suo legame con l’antica biblioteca reale.
A Copenhagen il verde dei parchi cittadini non manca, così come si percepisce che la media della popolazione è molto giovane.
La sensazione che ho avuta è che al nord dell’Europa certi stilemi sociali non trovino casa: la sera di San Valentino ho visto numerose compagnie di amiche cenare insieme e ridere di gusto, coppie in tutte le sfacettature e combinazioni possibili, godersi il romanticismo senza bisogno di nascondersi. Naturalezza, convivenza, comunità, convivialità sono concetti che si vivono, non solo parole.
L’ambiente e la sua cura sono un baluardo, non ho incontrato un solo bidone esplodere per l’immondizia, tutto si differenzia, in modo consapevole, come fosse naturale farlo. Lo stesso cestino della camera dell’hotel era diviso per tre tipi di raccolta. L’acqua da bere si trova spesso nel tetrapack per evitare la produzione di plastica.
Se si parla di danesi non si può prescindere da almeno tre delle loro fissazioni: le candele, la luce, le sedie che confluiscono tutte in quella dimensione dell’anima che si chiama “Hygge” (una sorta di “Cozy” inglese).
Gli spazi, e la cosa mi ha colpito molto, sono arredati spesso con giochi di sedie, poltroncine e divani, diversi per forma e design, tutti incredibilmente confortevoli. Non per nulla alcune delle più iconiche sedie del design mondiale, vedono la luce dalle mani di sapienti maestri danesi. Il legno spadroneggia negli arredi quasi ovunque.
I popoli nordici, complice il lungo inverno, le poche ore di luce, il freddo, vivono la sacralità del luogo, della compagnia, dell’ambiente, della famiglia. Ecco che ricreano le condizioni ideali dove stare, come starci e con chi.
Se non si raggiunge almeno il metro e settanta cinque di altezza ci si sente un vero tappo di bottiglia, sono una popolazione alta, alta, alta e tanto, tanto, tanto bella. Le sfumature di biondo dei loro capelli, gli occhi in tutte le gradazioni del blu, dell’azzurro con tocchi di verdi.
Il mio personale momento di gloria l’ho vissuto quando il receptionist danese mi ha chiesto se fossi svedese (a me!!!!), ridendo ho risposto “100 % italiana e poi sono troppo corta per essere una svedese”, lui ha insistito affermando con convinzione che la mia faccia ha i lineamenti svedesi, in quanto all’altezza ci sono svedesi piccole. Da questa affermazione mi sono cuccata il bell’appellativo “La svedese nana” che mi ha accompagnato per tutta la vacanza.
Sarà che fanno molto sport, oltre che andare in bicicletta, ma ho faticato a vedere persone che non fossero in perfetta forma fisica. Pochi, pochissimi abitanti per così dire in sovrappeso, deduco quindi che il freddo faccia bene perché in quanto a condimenti grassi e burrosi, formaggi e carne, colà siamo nel paradiso delle iper calorie.
A me l’aringa marinata comunque resta indigesta.
Passeggiando per strada con la faccia da turista, il volto paonazzo per il vento gelido e l’espressione felice (quante volte ho pensato “meno male che sono triestina e la bora mi ha abituato a questo freddo), ho ricevuto in regalo sorrisi dalle persone che incrociavo che mi pareva un miracolo.
I danesi sorridono. Non li ho visti musoni, nevrastenici, se c’è da aspettare si mettono in fila tranquillamente, non si agitano. Incredibile.
In Danimarca di Covid manco l’ombra. Nel senso che se c’è, e pure da loro c’è, è una delle malattie di cui non si fa battage ovunque come da noi. Nessun green pass, massima libertà e… che bello!
Ho avuto la sensazione che le donne danesi siano molto indipendenti, libere e in questo ho percepito quella gaiezza delle mie donne triestine. Non sono riuscita a fare la foto di un equipaggio di canottiere almeno sessantenni, una mattina gelida, con la barca d’appoggio in cui c’era una loro nipotina che le seguiva felice. La bellezza di queste gagliardissime signore, non ho potuto non salutarle, incitarle, mi hanno sorriso e salutato a loro volta.
Voglio trascorrere la mia pensione qui, tra i meravigliosi popoli vichinghi, anche se le birra non mi piace e il freddo lo sento eccome, a differenza loro, ma… mi è stato fatto notare “Chi ti mantiene a te?” e il mio sogno si è dissolto come un fiocco di neve sull’asfalto…
SE PREVEDETE UN VIAGGIO, ECCO LA MIA LISTA:
per la prima volta la Lonley Planet mi ha tradita: comprate una guida scritta post 2021, il covid ha tristemente cambiato molte cose (negozi spariti, siti chiusi ecc ecc)
non fate bancomat all’arrivo che non serve, si paga tutto con la carta, in alcuni luoghi il contante non è accettato
non si visita la Danimarca se non si va in bicicletta
la voce cibo influisce pesantemente sulle spese di viaggio, per noi molto molto costoso. Però a Copenhagen si può mangiare davvero bene, è una città particolarmente “stellata”. La ristorazione italiana molto presente.
concedetevi il tempo della sosta per apprezzare ciò che vi circonda e, perché no, chiacchierare con i locali. In una parola fate Hygge pure voi
ho assaggiato un cidro spettacolare, a 4,5% che mi è andato in testa immediatamente (sono completamente astemia) aveva un sapore buonissimo
fatevi consigliare sui dolci danesi che alcuni meritano, per me la scoperta il brunsviger.
Una volta desideravo visitare i paesi caldi, crescendo il nord sta rubando attenzione ed interesse. Adesso capisco il perché.
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