
Foto di Samuel di Luca
Fuori siamo professionisti, madri o padri, indaffarati, soli. Dentro, una tanda basta per trasformarci. In qualcuno.
Entriamo in sala e ci vestiamo del nostro personaggio.
Ballare ci permette di giocare con chi “vorremmo essere” o “non essere”.
Ho fatto spesso questo ragionamento sulla duplicità perché la vivo sulla mia pelle.
In pista, permetto a me stessa di far uscire allo scoperto alcuni aspetti della mia personalità che, normalmente, non mostro.
Dalle insicurezze iniziali è nata la mia giaguara. La vedo in pista, la sento nel corpo. Vive nella tanda. Fuori non mi segue. Non ama la luce.
Ho visto molti tangueros trasformarsi come me. Li ho visti tremare e diventare giganti. O svanire mentre danzano. Ma in quel momento, sono veri.
La milonga è il nostro personale teatro dove alcuni si spogliano del quotidiano, altri inventano un alter ego.
Si tratta di maschere, di rappresentazioni verosimili di ciò che siamo. Una sorta di carnevale del possibile. Di ciò che vorremmo. Dei nostri sogni. Dei nostri desideri. Di essere scelti, toccati. Di esistere per qualcuno.
Chi cerca visibilità, chi conforto, chi potere, chi vendetta, chi amore e a volte lo trova. E c’è chi non cerca più nulla. Eppure continua a venire.
Fuori dalla pista, siamo fragili, stanchi, a volte invisibili. Dentro, anche il corpo più incerto può diventare lingua, invito, eleganza.
Il tango ci dà una nuova identità. E come ogni identità, rischia di diventare una trappola.
Ci sono tande che ci portano via la pelle e il cuore, illudendoci di aver dato vita a un sogno fatto di realtà.
Ma è solo polvere di musica, sudore scambiato e battiti condivisi. Finisce la tanda e cala il sipario. Su di noi.
Pimpra


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